Dopo la Berlinale anche il Festival di Roma propone il nuovo lavoro di Wim Wenders, Pina, un film che dà alla tecnica del 3D un significato inedito, e decisamente straordinario, a contatto con l’arte di Pina Bausch, la danzatrice e coreografa tedesca scomparsa nel 2009. “Nato come un film con Pina, un progetto a lungo accarezzato insieme a lei, è diventato dopo la sua morte un film per Pina”, sintetizza il regista, che sta già pensando a un nuovo progetto stereoscopico, stavolta dedicato all’architettura. “Vorrei che fosse un film di finzione e che il 3D fosse necessario al racconto. Mi piacerebbe vedere il lavoro di Scorsese qui al festival, Hugo Cabret, proprio per capire come lui ha usato la tecnologia al servizio di una storia. Purtroppo sono impegnato con le interviste e non posso andare al cinema”.
Accanto a lui, in un hotel del centro di Roma, anche due danzatori del Tanztheater Wuppertal, gli italiani Damiano Bigi e Cristiana Morganti. Quest’ultima, romana di nascita, venne folgorata dall’arte di Philippine Bausch quando aveva 17 anni e vide un suo spettacolo al Teatro Argentina. “Dissi subito ai miei: ecco cosa voglio fare da grande”. E così è stato. Del resto è fortissimo, quasi carnale, come si vede anche nel film, il legame dei danzatori con la coreografa. “La sera che è morta – raccontano – abbiamo deciso di andare in scena lo stesso – eravamo in una città della Polonia – seppure con le lacrime agli occhi. L’abbiamo fatto per onorare il suo motto: Balliamo, balliamo, altrimenti siamo perduti”. Con la loro tenacia e la loro dediazione hanno convinto anche Wenders a non abbandonare quel progetto. E ora vorrebbero tornare a lavorare con lui in un nuovo film.
E’ vero che voleva abbandonare il progetto?
Sì, ero sconvolto dalla morte di Pina e pensavo che questa idea – che avevamo coltivato insieme per venticinque anni e che finalmente si poteva realizzare con il 3D, che era in grado di rompere il muro invisibile che c’è tra il palcoscenico e chi guarda – fosse morta con lei. Ma i suoi danzatori, che avevano avuto il coraggio di continuare il suo lavoro, mi hanno convinto che sarebbe stato un errore rinunciare.
Avevate però lavorato insieme alla concezione del film, scegliendo quattro pezzi dall’insieme dalla sua opera: “La sagra della primavera”, “Kontakthof”, “Café Muller” e “Vollmond”.
Sapevamo di dover scegliere quattro pièce, perché Pina avrebbe dovuto rimetterle tutte in cartellone e questo era il massimo che potesse allestire in un anno. Sulle prime due non abbiamo esitato un solo istante, Cafè Muller e Le Sacre di Stravinskij sono le prime due che avevo visto, entrambe degli anni ’70. Poi volevamo qualcosa di recente e Vollmond, tra i lavori degli anni 2000, era quello di maggior successo. Il quarto pezzo ci ha portato a esitare a lungo, non volevamo escludere Carnation o Viktor… Ma Kontakthof ha prevalso, sia perché i danzatori erano ansiosi di rimetterlo in scena, sia perché è l’unico che sia stato fatto da tre generazioni, nel ’78, nel 2000 e nel 2008 e tra l’altro, in una delle versioni, da danzatori non professionisti, persone che hanno più di 65 anni.
Qual è il suo preferito, dal punto di vista strettamente emotivo?
Sicuramente Cafè Muller, il primo che ho visto, nel ’78, con Pina che ancora danzava. Quella visione mi ha rivelato il suo genio, ma ancor più mi è sembrato di capire i movimenti umani, i gesti e i sentimenti per la prima volta, da zero. Per quel pezzo nutro un attaccamento fortissimo.
Tornando al 3D pensa che stia uscendo da una fase strettamente tecnologica o di giocattolo per diventare un mezzo espressivo a tutto tondo, grazie all’uso che ne faranno autori come lei, Herzog, Bertolucci o Scorsese?
Guardi, il cinema esiste da centodieci anni e ha avuto una costante evoluzione. All’inizio era rigido, poi la macchina da presa ha cominciato a muoversi, è arrivato il montaggio, e le immagini sono diventate più fluide ed eleganti. Quindi è arrivato il sonoro, che è stato un passo indietro, perché la recitazione si è di nuovo irrigidita, poi il colore, i diversi formati, il suono, la stereofonia… Il 3D è uno dei grandi passi nell’evoluzione del cinema: è nato come un’attrazione ma sta diventando un nuovo linguaggio.
Il 3D e la danza sembrano fatti l’uno per l’altra.
Credo con Pina di aver appena graffiato la superficie di questa forma espressiva. Ma sono stato fortunato a fare i primi passi nel 3D con un film sulla danza. Sicuramente vent’anni fa non avevo gli strumenti tecnici per esplorare l’arte di Pina ed ecco perché ho aspettato tanto. Poi, all’inizio, trovavo queste macchine pesanti e avevo paura che fossero in conflitto con la leggerezza del movimento, ma ben presto siamo riusciti a far volare la camera in modo armonioso.
E’ molto diverso lavorare in 3D per un regista?
Molto. E’ inutile fare lo story board, se muovi la camera muovi l’intero volume dello spazio. Mentre col 2D il lavoro del cameraman è molto simile a quello di un pittore sulla tela, qui invece l’approccio è completamente diverso.
Andrete all’Oscar con “Pina”?
Beh, il distributore americano ci crede molto.
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