Più che un’intervista un ritratto-autoritratto, quello orchestrato da Nanni Moretti che ha messo a confronto il suo cinema e quello di Wim Wenders in un affollato e piovoso pomeriggio torinese. Tre ore fitte di domande e risposte, la proiezione di un documentario annullata per fare spazio alle parole, la rievocazione di un’intera carriera che affonda le sue radici negli anni ’70 e nella grande stagione del nuovo cinema tedesco allo specchio con la carriera dell’autarchico. In sala, nascosti in mezzo al pubblico di appassionati, tre degli scrittori che hanno reso omaggio a Wenders nel bel volume curato da Stefano Francia di Celle per Il Castoro: Domenico Starnone, Francesco Piccolo e Sandro Veronesi. Moretti parte dal suo “lavoro di spettatore” capace di amare Wenders anche nei passi falsi (La lettera scarlatta) e affronta tutte le peripezie del lavoro del regista, compreso l’imbarazzo per gli attori “protestati” e le ansie della domenica notte, prima di iniziare le riprese. Nanni si perde nel labirinto dei ricordi, Wenders è concentrato e lucidissimo, riesce anche a strappare qualche risata con i suoi aneddoti, come quello dell’improbabile amicizia tra l’amico americano Dennis Hopper e Bruno Ganz, il primo sballato e anarcoide, l’altro professionale e preparatissimo. È un incontro molto intellettuale, tutto di testa. Ma un’emozione scorre finalmente quando Wim racconta della caduta del Muro. “Ero nel deserto australiano, a Turkey Creek, e vidi quella storica foto in un negozietto di alimentari, pensando a uno strano scherzo perché mi sembrava un evento inconcepibile. Poi telefonai a casa e mi dissero: è tutto vero, anzi ricordati di portare le banane! Perché le banane le avevano mangiate tutte quelli che venivano dall’Est”.
Ma gli appuntamenti di questa settimana wendersiana non finiscono certo con il faccia a faccia con Moretti. E tra una mostra di foto e un dibattito, c’è anche tempo per l’intervista che pubblichiamo.
La cifra principale del suo cinema è forse il viaggio, l’on the road, da Lisbona, al Texas, dall’Australia a Berlino e Cuba.
Il senso del luogo è paragonabile a uno dei cinque sensi: è possibile svilupparlo attraverso il viaggio ed è quello che ho fatto più di tutto. Prima di partire compro una mappa e la osservo per giorni, così quando arrivo sono molto in allerta, come febbricitante e pronto ad assorbire tutto quello che incontro.
Qual è l’ultima mappa che ha studiato?
Quella di Palermo, la conosco a memoria. Come Lisbona mi aveva interessato perché è il confine più occidentale dell’Europa, così Palermo è meridionale, quasi africana. Ho vissuto e lavorato in America negli ultimi sette, otto anni e da lì, quando pensavo a tornare, pensavo all’Europa, non alla Germania. Così ho deciso di rientrare dal luogo più a Sud. Una città dove sono passati tutti: arabi, greci, spagnoli, francesi, normanni, veramente un condensato di storia d’Europa.
Di cosa parla “Palermo Shooting” che qualcuno ha già paragonato a “Il cielo sopra Berlino”?
Non lo so nemmeno io. Lo saprò quando avrò finito di montarlo. È una storia suggerita dalla città stessa e dalle sue condizioni estreme, contraddittorie, come era successo a Lisbona o Berlino. Sto ancora cercando di capire. Posso dire che ci saranno le musiche di Rosa Balistreri: la sua voce interpreta l’anima di Palermo molto meglio della mia sceneggiatura.
Cosa pensa del modo di produzione italiano rispetto al cinema americano o tedesco?
Avevo già lavorato in Italia, con Antonioni, girando a Ferrara e Portofino per quattro settimane. Lavorare con una troupe italiana ti fa capire tante cose, per esempio da dove vengono i film di Fellini. Qui le persone dicono quello che pensano, mentre in America ognuno fa il suo lavoro e basta. E poi qui guai a non fare la pausa pranzo con la pasta e il vino. In Germania se bevono vino, smettono di lavorare, qui se non lo bevono fanno la rivoluzione.
Pensa che il cinema tedesco contemporaneo, che miete successi all’estero con film come “Le vite degli altri” e “4 minuti”, abbia qualche legame con la storica stagione del nuovo cinema tedesco?
Sono passate due generazioni, io faccio questo mestiere da quarant’anni e potrei essere il nonno di questi cineasti. Sono vicino ad alcuni di loro perché insegno cinema e perché le opere prime mi interessano molto. Posso dire che è una generazione molto determinata e che sono meno ingenui di noi. Fassbinder, Herzog, io stesso non facevamo molti calcoli, mentre loro hanno il senso del marketing e vengono spesso dagli spot e dal videoclip. Però faticano anche molto a lavorare: per realizzare Le vite degli altri ci sono voluti addirittura sei anni.
Cosa consiglia di vedere qui a Torino?
Innanzitutto i documentari, sono la cosa più interessante del cinema contemporaneo e io cerco sempre di vederli: tra un film americano, un film tedesco e un documentario, scelgo sicuramente un documentario. Poi consiglio il film di Sarah Polley Away from her. Sarah aveva una piccola parte in Don’t come knocking e mi aveva fatto leggere lo script, poi ho visto il film a Berlino e l’ho trovato bellissimo. Ha solo 26 anni ma è riuscita a fare un film su due vecchi.
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