Nippy, all’anagrafe Whitney, nasce il 9 agosto 1963. E’ l’America degli anni ’60, raccontata da immagini di repertorio, protagonisti gli afroamericani e la loro consapevolezza sociale di sapere “bene cosa significhi essere neri”, dirà poi la stessa cantante raccontando le proprie origini, in una famiglia profondamente credente e matriarcale. Cissy, madre di Whitney – e zia di Dionne Warwick – sin dalle messe gospel cantate nella parrocchia di Newark, si profuse per costruire l’universo musicale di quella figlia dotata di una voce celestiale, discograficamente apripista di un filone oggi radicato e svettante nelle classifiche della musica mondiale, quello delle stelle nere prestate al pop, motivo, invece, di condanna per Whitney. Fu a lungo accusata dai “fratelli neri” – con conseguenze sulla sua persona che l’hanno condotta sul confine del baratro – di essere una traditrice, perché non rappresentava il R&B; nell’89, soltanto pochi anni dall’inizio della sua carriera, Whitney era così devastata dalla questione da insistere con la sua casa discografica per cantare della “black music”. Chi l’aveva plasmata e creata – ma non fatta sentire se stessa – non accettò però di virare una carriera il cui album di esordio contava 25 milioni di copie vendute nel mondo, troneggiando all’apice della classifica più volte dei Beatles e definita dal Guinnes dei Primati “l’artista più amata e famosa di tutti i tempi”.
Il senso della spiritualità, supporto e condanna per Whitney Houston, come racconta lei stessa in alcuni stralci: era consapevole di essere stata dotata da Dio di un talento sublime ma, al tempo stesso, di patire di una fragilità umana, sin da adolescente faceva uso, poi abuso, di droghe. L’autodistruzione l’ha portata per mano fino alla fine. Un collage d’immagini d’archivio, di interviste che Whitney Houston, dagli anni ’80 fino a poco prima della scomparsa, 11 febbraio 2012, ha rilasciato, sempre caratterizzata da un basso profilo insieme a una fine intelligenza, che tutte le persone che la raccontano le riconoscono. Ma anche con un eccesso di modestia – “compariva sulla copertina di Seventeen e non lo diceva” – e alla nefasta abilità nell’autodistruzione: questa era lei, questo narra il film.
Un racconto documentario classico che, senza scadere nel melodramma della memoria e nell’aspirazione retorica per un possibile differente destino, restituisce la storia di una persona e tutta la malinconia della sua biografia, non mancando di testimonianze lucide e schiette, eppur perennemente affettuose. Un compagno di vita – ma anche di dipendenze e competizione artistica – come Bobby Brown; una amica del cuore sempre accanto a lei, come Robyn Crowford, forse estromessa troppo presto dalla quotidianità; una figlia adorata – e erede delle sue stesse debolezze e del nero destino, la morte a 22 anni – Bobbi Kristina: nulla di umano, né di divino, tanta era la sua fede, ha saputo tenere Whitney Houston ancorata alla vita, spenta nella solitudine tossica del bagno di un grande albergo di Beverly Hills, in una notturna Los Angeles.
Il film esce in sala, distribuito da Eagle Pictures, come un evento, per cinque giorni: la BBC ha prodotto, a dirigerlo Nick Broomfield, già autore di un documentario su Kurt Cobain – Kurt & Courtney (1998) – un film narrato anche con materiali inediti e familiari, in un’intermittenza tra luci del successo e umana quotidianità.
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