Volker Schloendorff: “Parigi val bene una bugia”

La pièce di Cyril Gely è diventata nelle mani del regista tedesco un film da camera, Diplomacy, in sala con Academy Two dopo l'anteprima al Festival di Torino


TORINO – Un regista tedesco, nato a Wiesbaden nel 1939, ma emigrato a Parigi nel ’56, che è stato assistente di Malle, Resnais e Melville, che parla perfettamente francese e piuttosto bene l’italiano e che si sente profondamente europeo. A lui è stata affidata la pièce di Cyril Gely, Diplomatie, abile schermaglia verbale sullo sfondo della seconda guerra mondiale. E lui ne ha fatto un film da camera, Diplomacy Una notte per salvare Parigi, con due grandissimi attori, André Dussollier e Niels Arestrup. Il testo parte da un fatto storico, la resa del generale tedesco Dietrich von Choltitz, governatore di Parigi, che contravvenendo agli ordini di Hitler, risparmiò la Ville Lumière. La città, alla vigilia dell’ingresso delle truppe alleate, doveva essere rasa al suolo, facendone saltare tutti i ponti e i principali monumenti, dall’Opéra al Louvre a Notre Dame. Il Führer, che l’ammirava e ne era al tempo stesso invidioso, aveva deciso così. Ma il generale Von Choltitz si convinse (o venne convinto) a salvarla. Fu davvero l’oratoria del diplomatico svedese Raoul Nordling a fargli cambiare idea? Non lo sappiamo per certo. Il film ci mostra l’incontro tra i due immaginando che sia avvenuto in una sola notte, quella del 24 agosto 1944, nella suite dell’Hotel Meurice dove aveva sede il comando tedesco, mentre nella realtà i due personaggi si videro a più riprese quell’estate e negoziarono anche uno scambio di prigionieri.

Diplomacy, che passa al Festival di Torino in Festa Mobile, è in sala con Academy Two. Abbiamo intervistato Volker Schlöndorff, il regista premio Oscar per Il tamburo di latta.

Pensa di aver aggiunto alla pièce un punto di vista in qualche modo tedesco?
Se l’ho fatto è stato contro la mia volontà per quegli aspetti della mia identità che non posso impedirmi di avere. Ho vissuto talmente a lungo nei vari paesi d’Europa che non mi sento più una cosa  o l’altra, ho un’identità multipla ed europea.

Il film però fa emergere una dimensione umana del generale Von Choltitz che va oltre il cliché del militare nazista crudele e senza scrupoli.
Ogni essere umano ha questa dimensione, ma io trovo che questo generale abbia poca cultura e corrisponda in larga misura all’immagine che abbiamo di un orribile nazista. Il suo passato è terribile, si vanta di aver ha distrutto la città di Rotterdam e di aver contribuito all’uccisione di migliaia di ebrei in Crimea, corrisponde in pieno al cliché del generale nazista ed è giusto che faccia paura, specie all’inizio del film, che sia percepito come capace di tutto. Non è il generale tedesco che si mette al piano e suona  Beethoven, è molto diverso dal protagonista del mio film precedente. In Francia ci sono due immagini del tedesco: il nazista spietato e il romantico idealizzato che ama l’arte e la musica classica. Ho usato una sinfonia di Beethoven per commentare le immagini della distruzione di Varsavia che era avvenuta tre settimane prima e che si vedono all’inizio del film, proprio per mostrare queste due facce a cui io non appartengo in nessun caso.

Sulla scorta dell’allestimento teatrale lei ha scelto un attore francese, André Dussollier, nel ruolo del console svedese, e un danese, Niels Arestrup, in quello del generale tedesco. Perché?
Un attore tedesco avrebbe voluto in qualche modo difendere o giustificare il personaggio del generale, Niels invece non lo giudica, come non giudica il mafioso corso che interpreta in Un prophète di Audiard. Dussolier è all’opposto, è un attore che vuole essere amato dal pubblico, che cerca l’identificazione. Il console Nordling, pur essendo svedese, era nato e vissuto a Parigi e si sentiva più francese dei francesi. Anzi, agì contro il suo governo, che voleva essere neutrale, a favore di Parigi. Questi due personaggi sono speculari: uno segue solo gli ordini che ha ricevuto e l’altro non prende ordini da nessuno.

Si identifica maggiormente in uno dei due?
Mi identifico in entrambi, un regista è un generale e un diplomatico allo stesso tempo. Ma guardo con orrore a Von Choltitz e non ho pietà per lui. Ha scelto quel mestiere che la sua famiglia fa da generazioni. E quando dice che i suoi figli sono più importanti di Parigi e dei suoi abitanti mi fa ribrezzo. Eppure, sul set, i miei giovani collaboratori pensavano che la sua scelta fosse normale, che fosse giusto fare di tutto per salvare moglie e figli, anzi si scandalizzavano perché il console alla fine lo inganna. Ma io penso che Parigi valga una menzogna.

È tornato a occuparsi della seconda guerra mondiale. Come mai?
Per me questo non è un film sulla seconda guerra mondiale, ma sullo scontro di due volontà, sul fatto che le parole sono più forti delle armi. È come se Nerone stesse per dare fuoco a Roma e qualcuno gli bloccasse la mano e lo convincesse che sbaglia con la dialettica. La diplomazia dovrebbe avere più spazio, oggi invece si cerca di risolvere tutto con le armi. Avrei voluto fare un film su Richard Holbrooke, il diplomatico americano che trattò con Milosevic la pace nell’ex Jugoslavia, ma non ho trovato produttori.

Ha rivisto Parigi brucia? di René Clement?
Non solo l’ho visto, ma sono anche stato sul set. Allora, negli anni ’60, ero assistente di Jean Pierre Melville e un giorno mi disse: “Clement ha bloccato gli Champs Elysées per girare una scena. Andiamo a vedere. Era molto invidioso, lui poi riuscì a girare sugli Champs Elysées L’armata degli eroi, ma solo il 15 agosto alle 4 del mattino.

Come si è tenuto distante da quel grande modello?

Non volevo fare lo stesso film, anzi bisognava fare il contrario. Parigi brucia? era epico, pieno di combattimenti nelle strade, qui avviene tutto in una stanza. Il drammaturgo, Cyril Gely, che ha scritto l’adattamento, aveva inserito delle scene in esterni per farmi felice, ma io gli ho detto di toglierle. Va benissimo così com’è. 

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