Lo sguardo, quello che viene considerato come il primo mezzo di conoscenza del mondo, finisce per diventare arma letale. Non ci sono altri gesti che possano sollecitare quella furia omicida: non una parola o movimento molesto, solamente un fugace contatto visivo. Questo è quello che succede in Vincent deve morire- Vincent doit mourir diretto da Stéphan Castang, dove Vincent (Karim Leklou), un uomo mite che lavora come grafico in un’agenzia pubblicitaria, dopo essere stato inaspettatamente aggredito da uno stagista sul viso con un portatile, sarà costretto a fare i conti con la furia omicida di chiunque incroci il suo sguardo. Ma quello che sembra un irrazionale attacco di rabbia dovuto a un regolamento di conti – poco prima l’uomo era stato deriso da Vincent – finisce per diventare un moto ricorrente nella vita dell’uomo. Da quel momento gli attacchi aumentano sempre più e per Vincent appare subito chiaro come sia proprio la connessione tra sguardi a dare vita all’esplosione di violenza ingiustificata. Ed è così che ogni donna, uomo, bambino o anziano diventano tutti potenziali assassini di Vincent.
In quello che per Vincent è diventato un mondo completamente ostile e rifiutante da cui stare alla larga, il villino di famiglia in campagna si rivela l’unica soluzione per la sopravvivenza alimentando giorno dopo giorno la paura verso gli altri. Il distanziamento, proprio quello a cui la popolazione mondiale è stata costretta durante la pandemia, diventa anche nel film, l’unico sistema per la conservazione della propria incolumità. Nel delirante profilmico diretto da Stéphan Castang, il regista ci mette subito in guardia dal ritenere lo spazio violento circuito entro i confini dello schermo, svegliando immediatamente lo spettatore e portando nel quadro quelle che sono le vere immagini di violenza che si consumano ogni giorno nelle nostre strade, ristoranti, supermercati e bar. Tutt’altro che latente, in Vincent deve morire, la traiettoria rivela gradualmente le sembianze di una parabola oscura e paranoica che ci coinvolge tutti nella atroce violenza dei nostri giorni impressa nella cronaca nera. Guerre, pandemie e burnout sono ormai la nostra reale narrazione quotidiana.
Nell’opera di Castang, non ci sono zombie, e nemmeno gli intrepidi e i coraggiosi. Nel volto di Vincent sfigurato dai ripetuti attacchi non c’è nulla di eroico, solo il corpo di un quarantenne che si affanna, come può, per uscire dalla fossa biologica straripante del proprio giardino (e quella sociale) che prova con pochi strumenti – un teaser, delle manette, e un cane – a lottare per la sua vita. Vincent deve morire ci parla però di esistenze ai bordi della società e di una solitudine già in atto fin prima della piega narrativa del survivor film, infatti l’uomo, già prima dell’intrusione degli attacchi violenti nella sua vita, sperimentava la socialità solamente attraverso i devices con incontri affettivi occasionali tramite app d’appuntamenti. Un distaccamento dal mondo urbano già avviato e che nel film trova il suo adempimento finale.
Quando ogni speranza di riconciliamento col mondo sembra aver lasciato definitivamente il testimone all’isolamento preventivo finalizzato alla conservazione del corpo, la parentesi amorosa interviene per ricolmare quei vuoti. La conoscenza con l’eccentrica cameriera di un fast-food Margaux (Vimala Pons) -spinta anche lei all’isolamento per altri motivi-, riporterà quel poco di socialità nell’esistenza di Vincent. Tra difficoltà e tentati omicidi, con una benda sugli occhi e un paio di manette durante il sesso, tra i due prende corpo, e si convalida, quel bisogno di affettività innato in ognuno di noi, rendendo di nuovo concreto il sentimento di fiducia -con le dovute precauzioni- nei confronti dell’altro. L’annientamento reciproco e il suo istantaneo smorzamento diviene il miglior compromesso per la sopravvivenza dell’istinto amoroso in una coppia ai confini del mondo. Laddove l’occhio ha fallito, il tatto torna ad essere il vero strumento di conoscenza, quello più carnale, primitivo e sincero, alla quale aggrapparsi per avere la vita salva e “punto fermo”, a bordo di una piccola barca, su cui riedificare una civiltà lontano dallo spazio urbano, ormai in piena psicosi dove tutti si uccidono solamente guardandosi.
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