“Vedo noir”, per un cinema italiano che torni “civile”


COURMAYEUR – L’Italia sta sprofondando in un baratro di incertezza politica, economica e sociale. Vede nero. E cosa fa il cinema? Potrebbe “vedere noir”, e rispondere alla crisi ripartendo dal cinema di genere, come suggerisce il festival di Courmayeur. Per uscire da questo “limbo”, ben rappresentato dall’immagine del manifesto del Noir firmata da Valentina Vannicola, oggi si sono incontrati per discutere di questo registi, produttori, sceneggiatori e giornalisti che hanno già lavorato in questo senso e a cui si potrebbe affidare questa responsabilità, forti del consenso internazionale ottenuto grazie a film come Gomorra, ad esempio.

 

A confrontarsi, moderati dal direttore Giorgio Gosetti e da Gaetano Savatteri, nel convegno Vedo Nero: la risposta del cinema italiano promosso da Cinecittà Luce, c’erano Mimmo Calopresti, Wilma Labate, Franco Bernini, Nicola Giuliano, Giorgio Arlorio, Sergio Rizzo e Carlo Bonini. Tra loro, il più sconsolato è Giuliano, produttore proprio di film di genere come La ragazza del lago e La doppia ora e di un film politico di grande successo come Il divo. “Siamo convinti che esista una generazione di ventenni che vuole sentirsi raccontare la politica al cinema? – si chiede Giuliano Io non sono d’accordo, insegno e parlo molto con alcuni giovani del Dams e del Centro Sperimentale, che sono un’elite culturale: nessuno di loro va al cinema, se non a vedere quello che tutti vedono. Al Dams, ad esempio, di 28 studenti, in 27 avevano visto Qualunquemente, solo in due Le quattro volte di Michelangelo Frammartino. Andare al cinema non più una priorità nel consumo culturale: dobbiamo prima di tutto ricostruire l’alfabetizzazione dell’audiovisivo del paese”.

Ma al di là di considerazioni scoraggianti come questa, un dato di fatto è la grossa difficoltà di realizzare film “politici”, “civili”. Lo testimoniano in prima persona Mimmo Calopresti e Wilma Labate, che lo hanno fatto in passato con film come La seconda volta o La mia generazione, ma ora si sono “fermati”, nonostante “ci sia un patrimonio enorme di storie di realtà e verità che al cinema sarebbero potentissime”, come dice Gosetti. “In questo momento è la crisi la padrona del Paese, e questo vale anche per i nostri film dice Calopresti – Non sono libero, se trovo un produttore che investe due lire in un mio film poi sono inchiodato a lui. Ma il cinema continua ad avere una sua vita, come in un mondo parallelo, perché è un linguaggio che sopporta molto, più della tv. Ha grandi potenzialità legate al suo linguaggio, è più forte di ciò che succede intorno”. A lui manca Mario Monicelli, che anche in tempi recenti diceva “Perché non facciamo la rivoluzione?”, e recentemente una piccola rivoluzione l’ha fatta raccontando la tragedia della Thyssen ” Ho visto cose assurde, in quella storia c’è tutto il Paese. Multinazionali, sindacati, vittime uccise dalla cialtroneria, dall’indifferenza, dalla banalità del male”.

Wilma Labate invece racconta di un episodio accadutole quando andò a vedere al cinema La battaglia di Algeri: “In platea c’era la sinistra, in galleria la destra: la proiezione fu interrotta perché scoppiò una violenta rissa. Oggi questo non potrebbe succedere… Perché io non ho continuato a fare film politici? E’ possibile che abbia avuto paura. Mi sentivo stretta in un’etichetta dopo La mia generazione, anche se ha avuto un certo successo”. Giorgio Arlorio, sceneggiatore, tra gli altri, di film come Ogro e Queimada, vorrebbe “che riapparisse un sogno collettivo, che tra autori ci si confrontasse di più, perché da soli ci si deprime”. Carlo Bonini, autore del romanzo A.C.A.B. che sta diventando un film, “Berlusconi e un’opposizione pallida sono l’autobiografia del Paese. Non sono i nostri carcerieri, il nostro è un Paese che si è ridotto in schiavitù per 17 anni lucidando la sua catena”.

Sergio Rizzo, coautore de “La Casta” e del film Silvio Forever con Roberto Faenza e Giannantonio Stella, sostiene che “il cinema può dare un aiuto gigantesco al risveglio delle coscienze e alla riappropriazione della verità. E’ un grande compito interpretare il bisogno di verità. Faenza ha avuto il coraggio di raccontare il delitto di via Poma, e io ho capito più cose guardando quel film che in 20 anni di articoli di giornali. Ci sono delle ombre inquietanti, della polizia, dei servizi segreti. C’è un inquinamento profondo”.

Il Noir in Festival prova però a dare la sua risposta chiamando in causa il cinema italiano, gettando un seme di confronto e proposta che promette di coltivare negli anni per agevolare la nascita di nuovi film tratti dalle realtà nascoste del Paese. Un primo suggerimento è il libro di Aldo Giannuli “Il noto servizio, Giulio Andreotti e il caso Moro”.

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08 Dicembre 2011

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