Vanni Gandolfo: “Luigi Freddi, un fascista hollywoodiano”

Cinecittà è famosa in tutto il mondo, ma nessuno ricorda più il nome di chi l’ha inventata. Alla Festa di Roma lo rievoca un doc di Vanni Gandolfo, con la voce di Abatantuono


Alla Festa del Cinema di Roma nella sezione Riflessi, L’arma più forte – L’uomo che inventò Cinecittà di Vanni Gandolfo, un film documentario prodotto e distribuito da Luce Cinecittà, nato da un’idea di Valeria della Valle e liberamente tratto dal libro di Luigi Freddi “Il Cinema”(1948).  Il documentario, con la voce narrante di Diego Abatantuono, rievoca la vita di quello che è stato a lungo considerato, negli anni successivi alla caduta del regime, solo uno dei più influenti gerarchi del cinema del ventennio nero. Attraverso le immagini dell’Archivio Luce viene raccontata la storia di Luigi Freddi: futurista con Boccioni e Marinetti, interventista, volontario nella prima guerra mondiale, legionario dannunziano a Fiume, giornalista, appassionato di aviazione, fascista.  Ma la passione dominante, nella vita di Freddi fu quella per il cinema, nata negli anni Trenta durante i viaggi a Hollywood, dove osservò e studiò tutti gli aspetti della produzione cinematografica americana e conobbe famosi produttori e registi americani. È lo stesso Freddi, direttore della cinematografia dal 1934 al 1939, a raccontare, con la voce di Abatantuono, la storia della propria  vita,  i rapporti col duce, la volontà di fare piazza pulita del vecchio cinema e  di organizzare una vera e propria politica cinematografica  di stato, l’ambizioso progetto di  far nascere   una città del cinema con impianti all’avanguardia, ideata in stile razionalista dal  celebre architetto Gino Peressutti. A 80 anni dalla posa della prima pietra a Cinecittà, la voce del protagonista sconfitto e  dimenticato di un pezzo di storia riemerge dal passato  e racconta con dolore, con rabbia, ma con immutato amore per la settima arte, il suo personale punto di vista sulla costruzione di una “fabbrica dei sogni” interamente italiana e  sul  tentativo  di fare del cinema italiano “l’arma più forte”. Ne parliamo con il regista.

Com’è nata l’idea di raccontare il personaggio di Luigi Freddi, potente funzionario fascista e direttore della cinematografia dal ’34 al ‘39?

Come per il mio precedente Me ne frego! l’idea nasce anche questa volta da Valeria della Valle, da una sua conoscenza personale. Nei primi Anni ’50 Valeria abitava in via Margutta, nello stesso condominio in cui abitava la famiglia Freddi. Da qui la curiosità di approfondire questo personaggio che ha avuto sicuramente un grande potere ma che è anche stato storicamente molto discusso.


La storia ce lo tramanda solo come uno dei più influenti gerarchi del cinema durante il ventennio nero. Chi era in realtà Luigi Freddi?

Era sicuramente un funzionario fascista molto convinto delle sue idee, ma nel film abbiamo volutamente lasciato da parte il discorso politico. Freddi era anche un uomo innamorato delle arti, un futurista affascinato dalla velocità e dal movimento che vedeva nel cinema. Era stato cronista per “Il popolo d’Italia” e per questo aveva girato il mondo, avendo l’occasione di incontrare negli Stati Uniti vari protagonisti del cinema americano, di cui rimase affascinato, e di studiare gli aspetti dell’industria cinematografica hollywoodiana. Abbiamo cercato di trasmettere la passione autentica di quest’uomo, cercando però di non fare nulla di agiografico.


Qual era l’obiettivo di Freddi nel momento della sua ascesa politica?

Il suo tentativo fu quello di creare un’industria di stato che non facesse film di regime ma d’intrattenimento. Un cambiamento naturalmente osteggiato da un settore chiuso e conservatore come quello cinematografico. Portò in Italia i più grandi nomi del cinema mondiale, di cui c’è testimonianza negli archivi dove abbiamo trovato meticolosamente conservati tutti gli inviti a prime o anteprime, le foto autografate dei divi del momento come si usava all’epoca. Tutti sono passati tutti dal suo ufficio, era un uomo di potere a cui esprimevano rispetto perché stava creando una grande industria.


Diversa dall’uomo di potere l’immagine che viene fuori dal suo libro “Il Cinema” e dalla testimonianza della figlia Angela.

Nel ’48, momento in cui viene messo politicamente da parte, scrisse un libro in cui raccontava la sua esperienza nel cinema italiano. E’ un racconto corposo scritto di getto, in un italiano aulico e pomposo, pieno di rancore ma a volte ancora ricco di passione. Un libro scritto forse troppo a caldo, ma per noi importante come testimonianza preziosa della sua voce. La stessa figlia Angela nasce nel momento in cui il suo potere era finito e ci restituisce l’immagine melanconica di un uomo che era stato potente. Ci racconta di padre molto presente e premuroso ma che era al tempo stesso anche un po’ depresso. Lo definisce un “fascista hollywoodiano”, uno dei titoli possibili del film a cui avevamo pensato.


La voce narrante è quella di un sorprendente Diego Abatantuono.

Il testo, tratto dal libro di Freddi ma riadattato per attualizzarne il linguaggio, è tutto in prima persona. Il personaggio che ne viene fuori è un uomo po’ sbruffone, a volte arrogante e a volte dolce. Una voce banale sarebbe stata limitante e così ho pensato ad Abatantuono, dal vago accento milanese come Freddi, che nei film di Salvatores aveva già lavorato molto sull’identità linguistica e sull’attualizzazione dei personaggi. Mi ha detto che in 40 anni di carriera nessuno lo aveva mai chiamato per un documentario e si è appassionato così tanto al lavoro che da un solo turno di doppiaggio previsto ne abbiano fatti parecchi, perché era entrato a fondo nel personaggio e voleva renderlo appieno. 

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