Una lenta e desolante carrellata sui nuovi cinema: i multiplex delle periferie urbane soffocati dai centri commerciali. Stacco. Una scena di Salò o le 120 giornate di Sodoma di Pasolini, quella in cui i ragazzi-schiavi nudi, con un guinzaglio al collo, elemosinano un boccone di cibo dai “padroni”. Stacco. Panoramica sui più importanti registi italiani riuniti a discutere del destino del nostro cinema e a chiedersi: “Oggi sarebbe possibile fare Salò?”. E’ con queste eloquenti sequenze che prende inizio Di me cosa ne sai, con cui Valerio Jalongo si interroga sul “grande mistero italiano” del declino del nostro cinema nel corso degli ultimi trent’anni. Immagini preziose che mostrano monosale in dismissione; testimonianze di registi internazionali come Ken Loach, secondo cui “il cinema americano fa hamburger per la mente”; rievocazione di passaggi storici come la nascita della tv commerciali (e la battaglia di Fellini contro gli spot pubblicitari che distruggevano l’integrità delle opere), la partenza all’estero di De Laurentiis, Ponti e Grimaldi o la promulgazione della legge Corona, che metteva un freno alle co-produzioni internazionali. Nato come progetto collettivo 5 anni fa, il film prodotto da Ameuropa e Cinecittà Luce e in uscita i primi di ottobre passa oggi alle Giornate degli Autori, che in collaborazione con la SIC ha mostrato anche Videocracy, con cui l’opera di Jalongo ha diverse analogie in termini di tematica e di approccio.
“Di me cosa ne sai” è partito come progetto collettivo ed è arrivato come film singolo. Cosa è successo nel frattempo?
In realtà hanno collaborato alla regia anche Giulio Manfredonia e Francesco Apolloni, ma in ogni caso sono passati 3-4 anni da quando, in gruppo, abbiamo iniziato a pensare al film, al momento in cui è stato possibile realizzarlo. In questo periodo di tempo molti dei registi coinvolti all’inizio si sono dedicati ad altro e per forza di cose si sono allontanati dal progetto. E’ anche per questo che il titolo non è rimasto Film bianco, come si era pensato all’inizio con Ring: quello era un progetto che apparteneva al gruppo e voleva essere una denuncia delle malversazioni interne al cinema italiano, mentre il film che presentiamo ora ha preso un’altra forma, anche perché nessuno era disposto a ripetere davanti a una telecamera le cose che ci dicevamo. Erano soprattutto voci di corridoio, non dimostrabili.
Il sottotitolo definisce il film un’inchiesta. Qual è il suo oggetto principale?
Volevo raccontare trent’anni di evoluzione del nostro cinema da un punto di vista nuovo, partendo da quella grande espressione culturale e industriale che era il cinema italiano negli anni ’70 per arrivare alla situazione attuale. Abbiamo messo una lente d’ingrandimento sulla cultura dell’immagine italiana e abbiamo scoperto cose nuove. Come l’episodio dimenticato di Federico Fellini, che fece causa a Berlusconi con l’obiettivo di eliminare le interruzioni pubblicitarie nei film. Fellini aveva capito che dietro quella che apparentemente era una bega economica si celava un mutamento culturale che modificava anche il modo di percepire gli intellettuali e gli artisti.
Si racconta anche dell’odissea di Felice Farina per terminare il suo film dopo il fallimento del produttore…
Il film si muove su un doppio binario, partendo da una “cosa piccola” come la difficoltà per i registi italiani di fare il loro lavoro, e allargando l’obiettivo fino a includere la domanda sul perché sono “scomparsi” milioni di spettatori. La proliferazione dei multiplex ha cambiato il modo di fruizione e scoraggiato il pubblico alla visione dei titoli nazionali, come ha denunciato recentemente anche Carlo Verdone. Non è che i nostri film non piacciano, il problema è che non ci sono più quelle sale dove il pubblico andava a vederli.
Il momento in cui le cose hanno cominciato ad andare male è a metà degli anni ’70. Perché?
I nostri tre più grandi nostri produttori abbandonarono l’Italia. Dino De Laurentiis, nel film, accusa di corruzione gli Stati Uniti, che avrebbero causato l’indebolimento del cinema italiano. Sarebbe una cosa agghiacciante. Non abbiamo messo insieme ipotesi cospirative, ma fatti documentati, e da questi emergono forti coincidenze, tra cui il clima ostile nei confronti dei produttori o le sentenze che diedero ragione alle tv private. Un altro modo di leggere il fenomeno è quello della sostituzione: dalle monosale in dismissione alla crescita delle tv, che hanno occupato anche fisicamente gli spazi del cinema, come il Teatro 5 che fu di Fellini e che è diventato lo scenario di ‘Amici’ di Maria De Filippi.
Resta necessario che i registi italiani protestino, dopo l’azione alla conferenza stampa della Mostra?
Questo è proprio il momento di creare più scambio, non siamo più disposti ad accettare questo ruolo minore, deve cambiare il rapporto tra politica e cultura. Bisogna costruire situazioni di mercato equilibrate, come quelle che esistevano negli anni ’70, con una varietà di opere e autori e un’offerta ricca e qualificata per gli spettatori.
Al Lido c’è anche “Videocracy”, un film sulla televisione già molto controverso.
E’ curioso e importante che a Venezia ci siano contemporaneamente due film che affrontano il tema della cultura dell’immagine in Italia. E’ evidente che era diventato imprescindibile parlarne e il fatto che Di me cosa ne sai sia stato preso ai Venice Days mi dà molta forza.
Sta già lavorando a un nuovo film, stavolta di finzione?
Sto girando in queste settimane, fino a fine settembre, un film-scuola che si intitolerà Laria, senza apostrofo per suggerire che spesso i ragazzi non sanno nemmeno scrivere una parola così semplice. Sarà ambientato in una scuola di periferia e racconterà il degrado e la devastazione della scuola pubblica e i protagonisti saranno due professori “usciti di registro” interpretati da Valeria Golino e Vincenzo Amato. E’ una co-produzione tra la svizzera AmkaFilm, Ameuropa e Rai Cinema.
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