Può la morte, anche se scelta consapevolmente, essere indolore, dolce? È la domanda che si pone Miele, il primo film da regista di Valeria Golino, a Cannes (Un Certain Regard) il 17 maggio, in sala già dal 1° maggio con la Bim in 100 copie. Diretto dall’attrice, prodotto da Riccardo Scamarcio e Viola Prestieri (Buena Onda) con il contributo del MiBAC insieme a Rai Cinema e a coproduttori francesi, il film è liberamente ispirato al romanzo A nome tuo di Mauro Covacich (Einaudi). Racconta la storia di Irene, nome di servizio Miele, una giovane donna che ha scelto di aiutare malati terminali a praticare il suicidio assistito. Un rituale sempre uguale: la lettera in cui il ‘paziente’ si assume ogni responsabilità del gesto, la musica preferita, l’ultimo desiderio del condannato, dai cioccolatini al bicchiere di vodka, la possibilità di cambiare idea fino all’ultimo. Irene, che vola ogni mese in Messico per procurarsi illegalmente il Lamputal, un veleno per cani, non si considera un’assassina. Ha un’etica ferrea e un sistema di autodifesa che la porta a evitare ogni rapporto troppo stretto nella vita privata. È anche andata ad abitare in una casa di vacanze sul litorale romano. Fino al giorno in cui incontra l’ingegner Carlo Grimaldi, il cui male di vivere è tutto e solo spirituale. E’ allora che il suo mestiere le appare sotto un’altra luce. “Questa storia sposta il punto di vista sulla persona che dà la morte, che se ne assume la responsabilità. Procurare la morte e veder morire, per Irene, è tragico e terribile, così cerca di riacchiappare la vita: nuotare, andare in bicicletta, fare l’amore”, spiega la sceneggiatrice Francesca Marciano. Accanto a Jasmine Trinca, protagonista assoluta in tanti primi piani, ci sono Carlo Cecchi, nel ruolo dell’anziano cinico e disgustato dalla vita, Libero De Rienzo e Vinicio Marchioni, Iaia Forte e Roberto De Francesco.
Come nasce il desiderio di esordire proprio con una storia così dolorosa, che affronta temi tabù?
Tre anni fa lessi questo libro, che allora si intitolava Vi perdono ed era firmato da Angela Del Fabbro, in realtà uno pseudonimo femminile dell’autore Mauro Covacich. Un libro fulminante, contemporaneo, doloroso e provocatorio, con un personaggio femminile inedito in Italia. Decisi subito di farne un film, ma non è stato facile realizzarlo, sono successe tante cose. Avevo molte paure, avevo timore che non ce lo facessero fare anche perché le prime reazioni, anche di amici, erano tutte negative. Qualcuno mi ha detto: farai due film in uno, il primo e l’ultimo. Ma soprattutto avevo paura che, come primo film, fosse troppo difficile.
Ha cambiato molto rispetto al romanzo?
Abbiamo spremuto il libro di Covacich, insieme alle sceneggiatrici Valia Santella a Francesca Marciano, sovrapponendo un filtro nostro, un’etica nostra. Abbiamo tolto alcune cose e cambiato molto il rapporto tra Irene e l’ingegnere. E abbiamo cambiato il finale.
Ha mai pensato di essere anche interprete oppure di ritagliare un ruolo per Riccardo Scamarcio?
All’inizio si è parlato della possibilità che fossi io a recitare, ma non avevo voglia di avere me stessa come protagonista, anche se non escludo in futuro di potermi dirigere. Ma non qui, perché Irene deve essere una ragazza giovane, mentre una donna più grande avrebbe un bagaglio diverso. Riccardo poteva interpretare i due ruoli maschili al posto di Marchioni o De Rienzo? Forse sì, poteva farlo, ma non era il caso.
Il tema del fine vita, già affrontato da Marco Bellocchio in “Bella addormentata”, tocca una querelle etica particolarmente aspra in un paese cattolico come l’Italia.
Questo argomento è tabù più per le istituzioni e la politica che per le singole persone. Certo, tocca aspetti che creano un divario e vanno a colpire i nostri pregiudizi più intimi, ma nel mio film penso ci sia il tentativo soprattutto di porsi delle domande. Non è un film provocatorio né pro né contro, non prende una posizione definitiva che ti libera da tutto il resto. Posso dire che penso che ogni persona abbia il diritto di decidere per la propria vita e come finirla. Ma ci sono mille implicazioni e io volevo addentrarmi in queste, nei dubbi.
Avete pensato al gesto di Mario Monicelli?
Mentre stavamo scrivendo abbiamo avuto la notizia del suo suicidio e sicuramente ci ha permeato.
La morte resta comunque fuori campo nel film, che insegue al contrario una disperata vitalità.
È vero, non si vede mai una persona morire. Volevo però che si sentisse che ci si accosta a qualcosa di sacro e grave. E mi piaceva questo connubio di vita e morte, di luce e buio.
Quando Irene dice “nessuno vuole davvero morire, però quella non è più vita”, è in realtà l’autrice sta prendendo posizione rispetto all’eutanasia?
Non è una mia presa di posizione, è semplicemente un’intuizione di Irene. Lei l’ha vissuta così. È naturale che l’essere umano tenda alla sopravvivenza. Ma morire in qualche caso può essere una necessità. Comunque Miele non parla di eutanasia ma di suicidio assistito, perché la decisione è del malato che deve fare tutto da solo.
È felice di debuttare proprio a Cannes?
Sono molto contenta e devo dire che ho sempre pensato a Cannes e in particolare a Un Certain Regard per questo film. Essere lì, ti fa sentire di appartenere al grande cinema mondiale.
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