Valentina Cervi è a Venezia per il corto di Beniamino Catena, Quando si chiudono gli occhi, di cui è protagonista. Un viaggio onirico “su commissione” del Progetto per la prevenzione delle tossicodipendenze del Comune di Milano, che affronta il tema difficile del’abuso di droghe sintetiche, cercando di non staccarsi dall’occhio dei potenziali consumatori e potenziali spettatori, i giovanissimi. Ed è per la maggior parte molto giovane anche il pubblico che, quando Valentina entra in Sala Perla, la applaude a lungo.
Com’è stato lavorare con Catena in “Quando si chiudono gli occhi”?
Prima di questo corto, non conoscevo Benny, e a volte ci si fa influenzare dal fatto di non conoscere un regista. Ma per lui ho avuto un vero colpo di fulmine, emotivo e mentale. Mi ha fatto venire voglia di fidarmi, e per questo corto mi sono fidata completamente.
Tu alterni cinema e teatro. Cosa cambia nel tuo lavoro tra schermo e palcoscenico?
Il teatro è un banco di prova più complesso, più difficile. A volte su un set si gioca a fare l’attore, e non lo dico solo per me ma anche per tanti miei colleghi. Poi sali sul palcoscenico e capisci che devi lavorare con tutto il corpo, con la voce e non solo con gli occhi. Stand out and speak the text, come dice David Mamet. Non è questione di lavoro psicologico, di immedesimazione, di introspezione: tu sei il personaggio. Per me, che sono un’introspettiva, non è stato facile. Ho avuto molta paura del teatro. Ma è la paura che ci porta a realizzare i nostri progetti più interessanti.
C’è qualche regista italiano in particolare con cui vorresti lavorare?
Sì. Marco Bechis. Marco Bellocchio. E anche Bernardo Bertolucci.
Tutti registi che cominciano per B..
Dimenticavo Beniamino…
Quali sono i tuoi prossimi progetti?
Sono appena tornata da Los Angeles, per un progetto di cui non voglio ancora parlare, e spero di girare presto un film in Italia. Vorrei fare qualcosa di importante, e non intendo una megaproduzione, ma un film che abbia dentro una ricerca.
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