Gli incassi astronomici e il successo da fenomeno socio-antropologico ogni oltre più rosea immaginazione di C’è ancora domani di e con Paola Cortellesi è il segno di un film inclusivo da tutti i punti di vista, senza macchinazione algoritmiche capace di parlare di violenza di genere con un tono lieve, popolare.
Ovviamente non è la prima storia ad aver trattato un tema del genere.
Il femminismo, la denuncia del patriarcato, la lotta strenua delle donne per rivoltarsi nelle gabbie sociali in cui sono sempre state costrette ha in Italia una storia non antichissima, ma già presente timidamente agli inizi del secolo scorso.
Quando nel 1906 la scrittrice Marta Felicina Faccio detta Rina pubblicò con lo pseudonimo di Sibilla Aleramo il romanzo Una donna: in molti gridarono allo scandalo. Era il primo romanzo davvero femminista uscito nel nostro Paese e ottenne fortuna immediata.
Scrittrice e poetessa, la Aleramo ebbe il coraggio di affidare alla sua voce autobiografica la necessità di scardinare i ruoli di genere e riscrivere la storia delle donne, utilizzando la rappresentazione del dolore come un’occasione di cambiamento.
Attraverso i diari che vergava incessantemente con i suoi pensieri di intellettuale autentica e di donna alimentata da passioni infuocate, Sibilla mette in campo l’idea che scrivere sia un “atto necessario”: lei si esplorava attraverso le parole, metteva a nudo le sue paure e le sue fragilità e anche quando le sembrava «d’aver fra le dita la stanchezza di tutta la terra» continuò incessantemente a gridare in un mondo di uomini il diritto alla libertà e a un’esistenza da vivere nella pienezza di essere umano.
Una donna è il testamento letterario di questa scrittrice piemontese, il suo j’accuse potente e poetico, il grimaldello con cui scassinare la cassaforte della letteratura italiana, maschile fino al midollo.
Il romanzo all’inizio venne rifiutato dagli editori Treves, Baldini & Castoldi e fu pubblicato da STEN Società Tipografica Editrice Nazionale (già Roux e Viarengo) nel novembre del 1906 anche se riportava la data del 1907.
Il romanzo assolutamente autobiografico si compone di tre parti attraverso le quali la Alerano narra in prima persona la sua esistenza, partendo dagli anni della fanciullezza fino alla maturità. Il successo fu repentino e travolgente. Fu tradotto in un gran numero di lingue: francese, tedesco, inglese, spagnolo, svedese, polacco, danese, olandese e perfino sardo nella variante campidanese. E solo per citarne alcune.
Settant’anni dopo, lo “scandaloso” memoir di Sibilla Aleramo diventa un teleromanzo di successo nelle mani sapienti di un regista che oggi viene definito “il padre della fiction” (come si legge nella Garzantina della televisione): Gianni Bongioanni.
Lo sceneggiato racconta di Lina che, trasferitasi da Milano al Mezzogiorno d’Italia, dove il padre ingegnere ha deciso di aprire una fabbrica, incontra Antonio. Dopo un po’ si sposano e così comincia per la donna una vita miserabile. Prigioniera di una vita gretta e di un uomo che si rivela essere di mentalità chiusissima, ottuso e finanche violento.
Lina è invece intelligente, talentuosa, appassionata e nonostante queste doti le ci vorranno anni di dolore e sopportazione, per trovare il coraggio di assecondare le proprie aspirazioni, rompere le convenzioni sociali e conquistare la libertà, per quanto la società dell’epoca sia disposta a cedere.
Nel ruolo di Lina Bongioanni volle una giovanissima Giuliana De Sio, allora non ancora ventenne. La prima puntata andò in onda il 16 ottobre 1977 e per sei settimane fino al 20 novembre 1977 la rete ammiraglia della Rai, che ancora si chiamava Rete Uno, calamitò tra i 15 e i 18 milioni di spettatori.
La De Sio dà una prova d’attrice intensissima, fin dalle prime scene in cui scende dalla carrozza e si avvia inquieta (seguita da una camera a mano ed esplorata da zoomate espressive) nel Manicomio Provinciale per incontrare la madre, reduce da un tentativo di suicidio e ormai in stato quasi catatonico, vittima a sua volta di un matrimonio infelice, di un marito geloso e soffocante.
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