“Le uniche storie d’amore che mi interessano sono quelle impossibili. Le relazioni normali in cui le cose vanno bene, dove non ci sono attriti né problemi, non mi interessano. Non ne parlo perché non c’è niente da dire sono noiose”. E’ netto il giudizio di Umberto Marino sulle storie d’amore. E non potrebbe essere altrimenti visto che il regista ha appena presentato La fiamma sul ghiaccio, il suo nuovo film, con Raoul Bova, Donatella Finocchiaro e Max Giusti. La pellicola, distribuita da Albatross in 60 copie dal 10 marzo, racconta la relazione sentimentale tra Fabrizio (Bova) un professore di matematica affetto da un morbo che gli impedisce di provare sentimenti, e Caterina (Finocchiaro) una clochard con problemi psicologici. Quando i due si incontrano è Caterina a innamorarsi immediatamente, ma per vivere questa storia d’amore non dovrà solo fare i conti con i farmaci e i fantasmi del passato, ma anche con la malattia di Fabrizio, apparentemente cieco e sordo nei confronti del suo amour fou.
Come è nata l’idea del film?
L’idea mi è venuta dopo aver letto un articolo sulla storia d’amore tra due malati di mente, ma più che dei protagonisti il pezzo raccontava quanto la società li avesse ostacolati. A me questo non interessava, così ho eliminato l’aspetto sociale e ho pensato solamente agli innamorati.
E’ stato difficile realizzarlo?
E’ un film insolito nel panorama italiano ed è stato quello che ha interessato gli stessi attori, anche se la parte di Fabrizio era stata scritta appositamente per Raoul Bova. Donatella e Max si sono interessati al film perché molto diverso dal solito.
Ha contato nella scelta del protagonista il fatto che lei e Bova abbiate debuttato insieme sul grande schermo?
No, non direi. Anche se ho un buon ricordo di Cominciò tutto per caso. Sono rimasto impressionato da come Raoul è entrato nel personaggio di Fabrizio. Anzi non ne voleva quasi più uscire. E’ stato un mese non facile per lui quello dopo la fine delle riprese. Continuava a comportarsi come Fabrizio. Ovvero stava male perché non poteva tornare subito ad essere Raoul, ma non poteva nemmeno continuare ad essere Fabrizio. Abbiamo costruito il personaggio insieme stabilendo camminate e modo di parlare e poi abbiamo avuto la collaborazione di Arturo Mona, psicologo ed esperto del morbo di Asperger, la patologia che vieta di provare sentimenti della quale è afflitto Fabrizio. Raoul ha anche legato molto con uno dei pazienti del dottor Mona, un ragazzo che si è scoperto essere un amante del cinema, così alla fine gli abbiamo fatto fare una comparsata nel film.
E per il ruolo della Finocchiaro a chi si è ispirato?
A Alda Merini, la poetessa con problemi psicologici. Mi sembrava la persona perfetta: uno perché serviva un punto di riferimento per le poesie scritte dal personaggio, due perché mi sembrava il modo migliore di costruire il ruolo. Qualcuno mi ha chiesto in passato come volevo affrontare questa storia considerato che si tratta di due matti e mi è venuto naturale rispondere che non c’è nessun modo. Per me l’amore quando è veramente tale è sempre una malattia mentale, quindi non trovo nessuna differenza. L’ho dimostrato anche nel film. Le fasi iniziali di innamoramento e corteggiamento sono identiche a quelle che vivrebbe chiunque fosse sano di mente.
Ci sono delle citazioni o dei riferimenti cinematografici?
Non ai famosi film sui ritardati o sui malati mentali come ad esempio Rain Man o Forrest Gump. Mi sono ispirato a 84 Charing Cross Road di David Hugh Jones con Anne Bancroft e Anthony Hopkins, in cui lei è una figura solare e lui è grigissimo. La pellicola si teneva tutta sulla recitazione di Hopkins, su come dosava le emozioni. Nel mio film è la stessa cosa perciò questo titolo: la Finocchiaro è il fuoco, Bova il ghiaccio.
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