VENEZIA – Come si vive (o si sopravvive) in un mondo sempre più collegato a Internet e sempre più freddo sul fronte dei rapporti umani? Sembra essere la domanda di fondo di Disconnect, dramma di Henry-Alex Rubin presentato fuori concorso a Venezia 69, che sarà distribuito da Filmauro nel corso del 2013.
E’ un film tematico a episodi, che racconta tre vicende accomunate dalla necessità di trovare dei legami nel mondo che non siano effimeri. Una traccia interessante, contemporanea e complessa, dato che il rischio è sempre di cadere nella manichea dicotomia secondo cui tutto ciò che passa per la rete è falso, freddo e negativo, mentre ciò che ha a che fare con i rapporti diretti, vecchio stile, è invece un bene ormai disperso e difficilmente recuperabile. Rubin, però, se la cava molto bene rispondendo con acume ai molteplici solleciti proposti dalla stampa: “La verità è che, Internet o no, si tratta di dinamiche umane. Si potrà sempre raccontare questo tipo di storie perché riguardano la gente, e la gente ha bisogno di relazionarsi. Non voglio diventare pesante, ma io credo cha ciascuno di noi abbia provato, almeno una volta nella vita, l’esperienza della solitudine. E tutti in quei casi abbiamo avuto bisogno di comunicare con qualcuno. La magia di Internet è questa, da un lato può fornire un antidoto alla solitudine, ma dall’altro ti allontana da chi ti sta accanto davvero”.
Anche in senso fisico. “La storia è nata proprio così – racconta poi – Lo sceneggiatore era a cena con cinque persone e a un certo punto si è accorto che ciascuno di loro armeggiava con il proprio cellulare è che non si stavano più parlando. E’ un fenomeno che ancora non ha nome ma credo che lo abbiate molto presente. Io stesso ora devo rispondere ad almeno sei chiamate. Il modo di comunicare è molto cambiato nel corso degli ultimi 10 anni. Ci si raggiunge molto più facilmente, ma siamo sicuri che tutta questa facilità sia utile? Non abbiamo nemmeno un codice o un’etica circa queste nuove tecnologie. Non sappiamo se sia giusto o no che i bambini si portino il cellulare a scuola. Non sappiamo se poggiare il telefono sul tavolo sia maleducazione”.
Con lui c’è anche l’attore Frank Grillo, che nel film interpreta una padre che non riesce a comunicare con suo figlio: “Sono un papà anche nella vita dice ho tre figli di 4, 8 o 15 anni e sono molto preoccupato di ciò che fanno. A volte capita che stanno seduti uno accanto all’altro e non si guardano nemmeno, ciascuno sulla propria tastierina. Io devo vigilare, al massimo ce li lascio stare 15 minuti. Poi si va a giocare tutti insieme in un’altra stanza, con un puzzle o qualcos’altro. Non si tratta solo di una questione di educazione. Se non si sta attenti, si corrono pericoli grossi, come dimostra il film. E’ molto facile per una persona malintenzionata accedere alle tue informazioni tramite la rete, perfino attraverso la videocamera o in modi che nemmeno vi aspettate. E devo stare anche attento perché mio figlio più grande è molto più furbo di me. Io, personalmente, sono troppo vecchio per essere coinvolto in questo mondo. Non uso i social network, non capisco perché le persone dovrebbero essere interessate a quello che penso io del tempo o a quello che faccio. Tutta questa autopromozione è pacchiana ed esagerata”.
“Vero però – continua il regista – che alcuni nella rete trovano ciò che le persone accanto a loro non gli danno. Credo abbia a che fare con l’ansia di esistere, di avere dei seguaci. Un po’ il tema di The Master, il film di Anderson, qui a Venezia, che per me è un capolavoro”.
La pellicola non è direttamente ispirata a fatti di cronaca, ma le vicende umane che vi si raccontano ne ricordano diversi: “Io sono un regista di documentari e lavorare con attori per me è una novità – chiude l’autore – ma ho cercato di approcciare il film in maniera realistica. A ciascuno dei miei attori ho cercato di dare la possibilità di lavorare a contatto con una controparte reale dei loro personaggi. Il ragazzo vittima di bullismo, il frequentatore di chat, il poliziotto informatico, il reporter eccetera& e questa è la mia visione. Il titolo ha una doppia valenza: Disconnect è un verbo ma anche un sostantivo. Non c’è un messaggio particolare che voglio dare, cerco solo di esplorare il modo in cui comunichiamo e lo faccio con taglio realistico. Solo alla fine del film i personaggi iniziano a guardarsi negli occhi, negli ultimi venti minuti. Ma non lo considero un finale consolatorio”.
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