Scelta appropriata quella di BiM circa la distribuzione di Still Life di Uberto Pasolini, in uscita in 60 copie il 12 dicembre come alternativa intelligente ai film di Natale più classici. Nel film i sentimenti ci sono – come è giusto, in linea col periodo – ma non si tratta della solita stereotipata commedia amorosa. Il film è piuttosto una sofferta analisi sul tema della solitudine, che Pasolini (regista, produttore e mente creativa dietro Machan e Full Monty, senza parentela alcuna con Pier Paolo e residente nel Regno Unito da molti anni) costruisce attorno alla performance convincente di Eddie Marsan, nel ruolo di un solitario funzionario comunale il cui lavoro consiste nel rintracciare i parenti più prossimi delle persone morte appunto senza alcun conoscente vicino. La pellicola, a Venezia nella sezione Orizzonti, ha vinto, tra gli altri, il riconoscimento per la miglior regia e il premio Pasinetti assegnato dal Sngci.
Ci spiega meglio il significato del titolo?
Still Life significa molte cose. Significa ‘vita ferma’, che è chiaramente quella che vive il protagonista, ma anche ‘ancora vita’. Anche se non si muove, è comunque una vita e ha il suo valore. In ultima analisi, può significare anche ‘vita per immagini’, che un po’, visivamente, esprime lo stile del film. ‘Still Life’ è l’espressione inglese per ‘natura morta’, buffo come la lingua giri attorno al campo semantico opposto: morte per l’italiano, vita per l’inglese.
Esiste veramente il mestiere di ‘funeral officer’?
Certo che esiste. Mica solo in Inghilterra. Esiste anche in Italia. Quello di liberarsi dei cadaveri è un problema igienico con cui bisogna combattere dai tempi della Roma antica, quando c’erano tanti poveretti che morivano per strada. E’ un problema di competenza comunale. Nello specifico Londra divide in tanti comuni e ogni comune ha una persona che si occupa di rintracciare le famiglie di persone decedute da sole, e in caso di fallimento, si occupa di organizzare le esequie. Spesso poi, come avviene nel film, qualcuno viene licenziato e così un altro officer si trova a doversi occupare di più distretti. E’ accaduto a quello di Westminster proprio durante le mie ricerche per le riprese.
Come è arrivato a questa storia?
Lessi su un quotidiano un’intervista a una persona che svolgeva appunto questo lavoro. Così sono andato a conoscerlo. Pian piano sono entrato in quel mondo, prima appunto ho parlato con il responsabile di Westminster e poi con quelli di quartieri più poveri, a Sud del Tamigi. Li ho seguiti per mesi e con loro ho visitato gli appartamenti di persone morte in solitudine. Ho anche presenziato a qualcuno dei funerali e spesso c’ero solo io a ricordare queste persone che nemmeno conoscevo, perché capita anche che l’officer che ha organizzato il funerale poi non abbia tempo per essere presente. Per il film ho inventato poco: non ho molta immaginazione e dunque devo rubare alla realtà momenti significativi, come il caso di quella signora che dopo 25 anni di vita piena si è ritirata a vivere solo con il suo gatto.
Ma il personaggi di Marsan non è solo un freddo impiegato…
Ho conosciuto circa trenta officer mentre facevo ricerche per il film. Per lo più sono burocrati, ma qualcuno ha un forte sentimento del valore umano del mestiere. Ci mettono anche più impegno di quanto gli sia richiesto dai superiori. Il protagonista è un mix di varie persone che ho conosciuto: la sua tendenza alla solitudine e il suo essere ossessivo vengono da me, sono mie caratteristiche. Il modo in cui affronta il lavoro viene dai miei incontri: il loro intento è di creare, almeno nel momento della cerimonia, un commiato positivo che permetta che il defunto non sia dimenticato. Solitamente un celebrante viene pagato dal comune, recita due parole e chiude la cosa in pochi minuti. La bara di solito finisce in una fossa comune, le ceneri vengono mescolate. Resta solo un numero in archivio, per ritrovarlo nel caso che qualche parente salti fuori a scoppio ritardato. La tomba è privata solo se ci sono sufficienti fondi nel conto in banca dell’estinto.
Un po’ di numeri. In che percentuale si riesce a rintracciare i parenti dell’estinto?
Bassissima. Il 70% delle volte non si trovano familiari. Del 30% rimanente, il 20% non vuole avere nulla a che fare con le esequie. E non è un problema di soldi, perché non necessariamente devono pagare per eseguirle, dato che se ne occupa il comune. Insomma, nel 90% dei casi le persone morte in solitudine restano sole fino alla fine, e ai loro funerali non ci sono parenti o amici. Si parla di casi in cui i contatti col defunto sono stati totalmente chiusi, o c’erano antipatie. Oppure tutti sono troppo vecchi, o magari vivono lontano. La struttura stessa della nostra società tende a portarci all’isolamento. Non esiste più il concetto per il quale tre o quattro generazioni della stessa famiglia vivono sotto lo stesso tetto. A me capita di chiedermi: chi ci verrà al mio funerale? Un po’, la vita, dopo il film, mi è cambiata. Io non conoscevo nemmeno i miei vicini di casa prima di fare il film. Ora li conosco. Però non glie lo dico, che il motivo è questo.
Pare che abbia puntato molto sul lavoro di ricerca…
Assolutamente. Il cinema per me è una scusa per fare ricerca su realtà sociali molto diverse dalla mia: sono cresciuto da straprivilegiato e il mio background sociale lo trovo poco interessante, forse perché lo conosco fin troppo bene. Faccio cinema da trent’anni, prima facevo il banchiere e ho abbandonato il lavoro per curiosità e per avere una vita più interessante, cosa che in effetti si è verificata, devo dire. La parte che più mi piace è proprio la ricerca, mi dà la possibilità di scoprire realtà sociali a me aliene. In Full Monty io parlavo di capofamiglia che perdono il lavoro. Tutti si ricordano lo spogliarello ma in realtà, come diceva mio padre, è un film tristissimo. Stessa cosa con Machan: parto da una notizia sul giornale e inizio a interessarmi a un tema. In quel caso il motivo per cui tante persone lasciano la propria casa, la propria famiglia, il proprio lavoro, per imbarcarsi in una disavventura tragica verso il mondo occidentale che promette ciò che non può mantenere. In Still Life sono partito da un’immagine: un funerale senza nessuno presente. Viviamo in una società dove l’isolamento diventa sempre maggiore. I giovani fanno amicizia su Internet. Ma quell’amicizia non ha valore. Perché puoi scappare in qualsiasi momento. La vera amicizia comporta responsabilità. Ti devi compromettere e non sei tu a decidere l’apertura, i tempi e quando smettere. Lo stesso motivo per cui diciamo cose molto personali a sconosciuti in treno, che sappiamo di non rivedere mai più. E poi quelle stesse cose non riusciamo a dirle a chi ci è prossimo. Il film è stata anche una ricerca personale: sono separato da mia moglie, che vedo due volte al giorno, perché continuiamo a lavorare insieme. Ha fatto le musiche del film e poi porto comunque le figlie a scuola. Insomma, siamo ancora in contatto. Però due o tre sere a settimana mi trovo da solo nel mio appartamento. Un appartamento completamente vuoto, devo accendere le luci in ogni stanza, la radio per avere una parvenza di compagnia. Ero abituato a una casa molto popolata. Mi sono chiesto cosa accade a chi vive così tutti i giorni, senza nessuno con cui scambiare una parola. I giorni che va bene, riesci a fare due chiacchiere col cassiere del supermercato. Isolamento totale.
Un gran lavoro anche da parte del protagonista…
L’ho conosciuto sul set de I vestiti nuovi dell’Imperatore, in cui faceva il valletto di Napoleone e in pochissime battute riusciva a dare un’enorme profondità al personaggio. Ho capito subito che per Still Life ci voleva lui perché è capace di dare tanto con poco. Volevo che il film si mantenesse su un tono basso. A ‘basso volume’, oserei dire: inizia quasi in bianco e nero e poi acquisisce saturazione man mano che il protagonista scopre nuovi sapori – passa dal tè abituale alla cioccolata – e nuove capacità di umana relazione. La musica anche, compare molto tardi. La macchina non si muove mai, sceglie inquadrature simmetriche. Io amo tutto il cinema ma mi rendo conto che colpire lo spettatore con una forte intensità drammatica, che può essere data dal volume, dagli effetti speciali o da una recitazione sopra le righe è facile. Però si dimentica presto, perché poi il vissuto quotidiano non è quello. Il vissuto quotidiano è invece sottotono, a basso volume. Per questo, se riesco a colpirvi con questo tono, il messaggio vi resterà molto più impresso.
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