Dieci anni fa, con The Full Monty, vinse decine di premi (tra cui un Oscar per la miglior colonna sonora e tre nomination nelle categorie principali) e ottenne un clamoroso successo di pubblico in tutto il mondo puntando sulla storia di sei disoccupati di Sheffield che, per sbarcare il lunario, diventano spogliarellisti sui generis. Ora il produttore internazionale Uberto Pasolini si trasforma in regista esordiente con Machan, un film che combina lo stesso mix di dramma e commedia per affrontare un tema scottante e delicato come l’immigrazione clandestina. Co-produzione italo-tedesca-cingalese da due milioni di euro – che coinvolge Redwave, StudioUrania, Babelsberg Film e Shakthi Films con la collaborazione di Rai Cinema e il sostegno di Eurimages e del programma Media – Machan è l’odissea di 23 uomini cingalesi che, alla disperata ricerca di un sistema per emigrare in Occidente e affrancarsi dalla miseria, si spacciano per la nazionale di pallamano dello Sri Lanka e raggiungono la Germania. E’ lì che si disputa un torneo internazionale di questo sport, di cui non conoscono nemmeno le regole. Atteso in prima mondiale alle Giornate degli Autori della Mostra del Cinema di Venezia, il film uscirà nelle sale il 12 settembre con Mikado.
Dove ha trovato lo spunto per questa storia?
L’idea mi è venuta tre anni fa leggendo un lancio d’agenzia che raccontava di 23 cingalesi che hanno inventato e improvvisato una nazionale di pallamano con l’obiettivo di usarla per entrare in Occidente. Una possibilità che a loro era assolutamente preclusa, a meno di non pagare dai 5 agli 8mila dollari per un viaggio della speranza. Trovo che la sfrontatezza di queste persone contro le leggi assurde sull’immigrazione sia una cosa magica, un piccolo trionfo di coraggio, di spirito, di follia.
Perché ha scelto il registro della commedia per trattare un tema di tale drammatica attualità sociale?
Mi interessa da sempre trattare temi seri in modo non drammatico, anche perché la commedia porta più facilmente le storie verso il pubblico. Mi piace adottare uno sguardo umano sulle storie e sui personaggi, in particolare sugli esclusi e sugli emarginati, come faceva Monicelli negli anni ’50. E poi sono interessato da tempo al tema dell’immigrazione e all’ingiustizia delle leggi che ratificano dei rapporti distorti: in Occidente il capitale economico può e deve crescere e muoversi, ma il capitale umano non può viaggiare.
Ha citato Monicelli. Ha tratto ispirazione anche da altri autori?
Considerando che è la mia prima regia non volevo osare troppo. E comunque non avevo intenzione di trattare un argomento e una storia già così forti in modo autoriale. Non ho voluto applicare nessuna particolare grammatica cinematografica, ma anzi rendere quasi invisibile la macchina da presa per produrre un film stilisticamente classico e quasi naturalista. L’unica ispirazione, non tanto registica quanto di contenuti, l’ho presa semmai da Ken Loach e dalle opere in cui mescola insieme elementi di dramma e di commedia, come Riff Raff e Piovono pietre.
Da produttore internazionale di successo è diventato un regista esordiente in Italia. Un percorso insolito.
In realtà ho prodotto un solo film di grande successo, con molta fortuna ma anche un discreto merito, che è The Full Monty, e non avevo intenzione di fare il regista, anche se come produttore sono sempre stato molto presente in tutte le fasi creative. Ma mi è capitato di innamorarmi del soggetto di Machan fino a un punto in cui mi sono trovato “all’altare” con questo film e non potevo più non sposarlo: dovevo essere io a occuparmi della regia. Ora tornerò a fare il produttore: ho in cantiere un western che dirigerà Alan Taylor e un adattamento di Bel Ami di Guy De Maupassant con Gael Garcia Bernal.
Nel suo futuro prossimo non vede quindi altri film da regista?
Quella di Machan è stata un’esperienza divertentissima ma molto faticosa. Tornerò a fare il regista solo se mi capiterà un’occasione creativa valida, anche perché penso che la maggior parte dei film che vorrei fare sarà sicuramente migliore se non sono io a dirigerli.
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