“Sono contenta che in questo festival siano arrivate molte opere dirette, scritte e recitate da donne”, ha detto la presidente di giuria di Alice nella città Trudie Styler, attrice, produttrice, attivista e regista inglese.
“La grande novità dell’edizione di quest’anno è, infatti, la presenza di tanto cinema al femminile”, ha concordato la produttrice Camilla Nesbitt di Tao2, che ha dato il nome al premio di Alice per le opere prime e seconde.
Una piccola grande rivoluzione che, a detta della giuria di Alice – composta dal regista Marco Danieli, dall’attrice Barbora Bobuľová, dalla conduttrice radiofonica Andrea Delogu, dallo sceneggiatore Nicola Guaglianone, dalla regista Zoe Cassavetes e dalle sopra citate Trudie Styler e Camilla Nesbitt – rispecchia il bisogno di parità di genere che si respira ultimamente nell’industria cinematografica, alimentato dai recenti scandali sessuali di Hollywood e dalla eco che ha avuto nel mondo del cinema.
“L’industria cinematografica – ha detto Trudie Styler – è ancora profondamente maschilista: soltanto il 25% dei produttori e il 5% dei registi è di genere femminile. C’è ancora molta strada da fare e Alice nella città può dare il suo contributo a spronare le giovani donne a entrare nel mondo del cinema”.
Alice nella città, sezione autonoma della Festa di Roma che dà spazio alle giovani generazioni, sta al passo con i tempi e, se possibile li anticipa, con una selezione di film dalla forte identità, all’insegna della sperimentazione tematica e della libertà di linguaggio.
“Oltre alla forte presenza femminile, i film di Alice raccontano il dolore, le periferie del mondo e, ovviamente, la crescita, tema che mi è caro, visto che il mio film d’esordio è un film di formazione”, ha detto il regista Marco Danieli vincitore del David di Donatello come miglior esordiente con La ragazza del mondo.
“I film in concorso sono in grado di destrutturare il linguaggio adulto e di arrivare a tutti, però per quanto riguarda la parità di genere anche il pubblico deve fare la sua parte, impegnarsi a sostenere le donne nell’industria cinematografica e le donne in generale”, ha detto la regista Zoe Cassavetes, a Roma anche per presentare la sua ultima opera sulle sfide dell’adolescenza.
Il suo film e quello di Trudie Styler, entrambi proiettati ad Alice nella città tra gli eventi speciali, esprimono un punto di vista impegnato sulla parità di genere, sull’emarginazione, sul bullismo a scuola, sulla fatica di diventare adulti e sul bisogno di libertà per diventare se stessi.
Figlia d’arte, Zoe Cassavetes è una regista come suo padre John e i suoi fratelli Nick e Xan, da cui ha preso la determinazione e la forza di volontà; dalla madre, l’attrice Gena Rowlands, invece, per fortuna, dice scherzando, ha ereditato le gambe e la calma.
Da sempre nel mondo del cinema indipendente come tutta la sua famiglia, Zoe si è fatta notare dal grande pubblico nel ‘94, con Hi Octane, uno show di varietà che ospitava personaggi famosi come Keanu Reeves, i Beastie Boys e Martin Scorsese, girato insieme a Sofia Coppola. Nel 2007 ha diretto Broken English, una commedia indie sull’amore e sul senso di condivisione, che l’ha consacrata come regista. Quest’anno si è cimentata con una serie di 10 puntate, Junior, prodotta e voluta dalla piattaforma digitale francese Blackpills, su un’adolescente, Logan, che cambia città e si confronta con il nuovo ambiente, sentendosi spesso inadeguata.
“Il produttore mi ha detto che sarei stata libera nella scrittura e nella regia di questo progetto, ma poi ha aggiunto che sarebbe stato sull’adolescenza: un tema che non ha mai suscitato troppo il mio interesse. L’anno scorso, però, ho promesso a me stessa che avrei detto sì a tutto quello che mi faceva paura e allora ho accettato la sfida. Ho cominciato a pensare alla mia adolescenza, ho parlato con i figli dei miei amici (che lontano dai genitori hanno molta voglia di parlare di sé), mi sono documentata leggendo libri e ho capito quanto la tecnologia e i social media siano centrali nella vita degli adolescenti di oggi”. I giovani protagonisti di Junior, infatti, guardano gli altri e se stessi attraverso al lente dello schermo del telefonino, il loro specchio sul mondo, perdendosi dietro a quelle dinamiche di cui, inevitabilmente, non hanno ancora fatto esperienza: “Facendo le mie ricerche, ho capito che l’adolescenza oggi non è cambiata rispetto ai miei tempi; c’è meno mistero, perché c’è internet, ma le angosce di Logan, gli sbalzi ormonali, la sua paura di non piacere, di rimanere isolata, le abbiamo sperimentate tutti, soprattutto a scuola”, ha concluso la regista.
Scuola che torna anche in Freak Show, il film d’esordio di Trudie Styler, tratto dall’omonimo libro di James St. James, sull’adolescenza di Billy Bloom, un giovane omosessuale alle prese con una nuova città. Dopo una vita di attivismo insieme al marito Sting e di produzione accanto a giovani registi come Guy Ritchie (Lock, Stock, and Two Smoking Barrels and Snatch), Duncan Jones (Moon) e Dito Montiel (A Guide to Recognizing Your Saints), Trudie Styler ha avuto l’occasione di girare il suo primo film, con la Maven Pictures, di cui è co-fondatrice, trattando un tema che le sta a cuore.
“Questo film per me è autobiografico in qualche modo, perché da piccola sono stata vittima di bullismo a causa delle cicatrici che avevo in faccia per un incidente stradale – ha detto la regista – Ricordo che i compagni di scuola mi accerchiavano e mi gridavano ‘Scarface” per prendermi in giro. Non ho dei bei ricordi della scuola, perché a quell’età chi è diverso nell’aspetto viene emarginato, mentre dopo, all’università, chi è originale viene sostenuto e stimato da tutti”.
Il protagonista di Freak Show è Billy, un adolescente omosessuale che si trasferisce a casa del padre, in una cittadina di provincia in cui il suo stile eccentrico è osteggiato da tutti, soprattutto tra i banchi di scuola.
“Attingendo alle mie memorie di outsider, ho deciso di ricostruire il ‘walk of shame’ dei corridoi scolastici, in cui tutti parlano male di te, ti fanno i dispetti e, come nel caso di Billy, ti insultano e ti picchiano”.
Ma questo, precisa la regista, non è solo un film sui diritti degli omosessuali: “È un’opera che invoca compassione e senso di comunità, che nelle scuole manca completamente. Il bullismo è diventato la norma ormai e il mondo si sta spostando a destra, perciò bisogna intervenire in fretta”.
“Quando il film era ancora in lavorazione, ha raccontato Trudie Styler, Donald Trump non era né candidato né tantomeno presidente e mi chiedevo cosa volesse dire l’espressione ‘Make America great again’: a me sembrava un mantra, uno slogan senza contenuto, così abbiamo deciso con gli sceneggiatori di inserire questa frase nel film per bocca del personaggio più negativo di tutti, Lynette, che usa la religione come scudo per inneggiare all’odio contro gli omosessuali. Lei, come Trump, non si assume le responsabilità di quello che dice, perché si nasconde dietro a un’ideologia”.
La regista inglese, nominata per il suo impegno civile “Capri person of the year 2017”, in chiusura, ha raccontato di avere da sempre un rapporto speciale con l’Italia, a cominciare dalla promessa fatta a Dante Spinotti, il suo direttore della fotografia, conosciuto 30 anni fa a Cinecittà sul set del thriller Mamba: all’epoca Trudie era un’attrice con il sogno di realizzare un film da regista e ha giurato che prima o poi lo avrebbe chiamato per girarlo insieme.
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