Si è sempre più affermato, nelle diverse società, parallelamente con le mutazioni del gusto e delle coscienze politiche e sociali, il concetto di gende. Alla sua base sta la divisione dell’identità sessuale in più sfere che non le semplici, manichee, classiche, biologiche sfere di maschile e femminile. Ad esse infatti il gender affianca l’identità di genere lesbica, quella gay e quella transessuale. Ma si può continuare ancora elencando molte altre categorie. Basti sapere che queste sono le categorie ufficializzate dalla sociologia contemporanea, soprattutto da quella americana dove, in anticipo, nonostante le spinte omogeneizzanti della globalizzazione, si è fatta viva l’urgenza dell’argomento.
Questa dinamica resta tuttora molto arretrata come espansione di un territorio, anche solo di discussione teorica, figurarsi di messa in pratica, nel nostro Paese: dove ancora si discute di sessualità in termini di rincorsa del centro, emotivo e politico, del comune cittadino.
E il cinema italiano, i giovani autori (e di me parlo faziosamente dopo) degli anni Novanta come reagiscono a questa doppia urgenza, industriale (ininteressante e corriva ma comunque importante) e sensoriale? Possiamo proprio parlare (scrivere) di fraintendimenti del cinema italiano. Ormai da venti faticosissimi anni la nostra industria (?) si produce nello sforzo di rigenerarsi con una lentezza sfiancante. Aver capito cosa significa il gender mi sembra un’impresa non ancora messa massicciamente in atto, se è vero, come è vero, che si insegue ancora la pietra verde della fiction ben raccontata, del cinema medio che salvi anima e cassa. Ma siccome non esiste un sistema divistico, escludendo le serate imbarazzanti del David di Donatello, dove si premia chiunque e ci si parla addosso come in una strapaesana fiera di volgari, ma non vulgari, vanità; e siccome non esistono dei volti che possano essere ricondotti felicemente a un’identificazione deflagrante con lo spettatore, ma simpatici e (pochi) antipatici, bravini e carinissimi volti fatti di nulla; e siccome non ci sono volontà ed energia per il cesello minimale nella tavolozza del massimale (altrimenti un film come Come te nessuno mai sarebbe felicemente volgare come American Pie e non soltanto classista e triviale), mi sembra impossibile che si sviluppi il tanto sospirato cinema italiano medio. Possono esistere dei film, delle riuscite tra arte e mercato. Una cinematografia media no. Figurarsi una riflessione sul gender, o meglio una presa di coscienza (del) gender.
Vorrei proporre il paragone e la lettura rapida di alcuni, pochi titoli: Ecco fatto, Come tu mi vuoi, Se il tuo occhio dà scandalo, cavalo!, L’amore molesto, La vespa e la regina, Femminile singolare, Hamam.
Proviamo con Ecco fatto, prodotto da Raicinema Fiction (rispettando la produzione di senso da fiction domenicale) e Domenico Procacci, per la regia di Gabriele Muccino. Il soggetto si apre alle dinamiche più superficiali del cinema transgender: l’erosione dell’identità maschile, il conflitto sessuale, l’adolescenza come territorio inquieto. Eppure il film, che coglie, meravigliosamente e involontariamente, per mimesi l’ultraconservatorismo delle generazioni “giovani” metropolitane (sarebbe meglio dire romane), non vola verso alcuna sintesi, anche solo scioccamente moderna. No. Ecco fatto pretende di aggregare il nostro immaginario ai soliti temi mediterranei della gelosia maschile, del controllo della diversità misteriosa femminile. Pretendendo di apparire ironico e ragionevole nel disegnare l’amica lesbica come infida e mascolina e nell’usare la straniera come fonte, comunque, di incertezza negativa, di produttrice di dolore. Non c’è critica delle immagini, sdoppiamento tra segno e rappresentazione del segno. È proprio così, Pasotti, neanche l’ombra di un Matthew Broderick dipendente d’amore, deve ricondurre l’amata russa all’ovile della normale storia da ragazzi del muretto. È giusto così. Il tutto in salsa MTV con la m.d.p. che corre e si agita e gira (gira bene, si dice di un giovane regista in Italia e qui sembra che il complimento venga preso alla lettera) anziché frugare tra le maglie, scoprire il buio e ridere.
Ne La vespa e la regina sembra che finalmente il produttore e il regista prendano di petto la questione dell’identità di genere sessuale: cosa succede quando un omosessuale e una lesbica si innamorano e devono nascondere il loro vizietto etero agli integralismi delle loro comunità? Succede, naturalmente, la cara, vecchia commedia all’italiana, che in questo caso significa battute stinte ma cattive sui froci che vivono in décor fallocentrici (evidentemente Querelle de Brest è rimasto un film dimenticato) e lesbiche che hanno l’ossessione per i capelli corti, la durezza e la fica.
Per fortuna, oltre alle lezioni sempre transgender del mitico, immenso cinema di Alberto Grifi, ci sono serbatoi resistenti che non intendono raccontare di pornostar, ma con il cancro (Guardami), o di madri e figlie legate dall’incesto e dal ricordo del pompino subito (L’amore molesto).
Penso, piuttosto, al gioiello kolossale di Beniamino Catena, Se il tuo occhio dà scandalo, cavalo!. Il grandissimo filmmaker marchigiano sembra avere nei suoi cromosomi le avanguardie, da Buñuel a Gordon Lewis. Il suo occhio da cavare che racconta di un giovane alla ricerca della sua donna perfetta (ricordate Susan Seidelman e Shinja Tzukamoto?) è un produttore di senso transgender formidabile. È un invito alla messa in critica del nostro sentire, lontano anni luce dal comfort assassino dell’individuo medio, invito radicalmente votato a fare a pezzi il nostro cuore attraverso buchi che ne svuotino il contenuto sanguigno (una sequenza davvero insostenibile, davvero politica). Catena, armato di leggerezza e raffinatezza, usa le armi estetiche della contemporaneità mainstream, il video e il telecinema, per comporre un poema sinfonico dove nulla è come prima e dove, dopo, tutto sarà diverso. Una lezione che verrà ascoltata senz’altro, un prototipo per il cinema del futuro.
(estratti del saggio di Luca Guadagnino, Mutazioni, contaminazioni, “gender”, tratto dal volume Il cinema della transizione, a cura di Vito Zagarrio, edito da Marsilio)
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