La nona edizione del festival delle donne di Torino (1-9 marzo) offre un programma internazionale piuttosto interessante: arrivano alla commissione selezionatrice centinaia di film da vari paesi del mondo dove il cinema delle donne è forte e organizzato come Canada, Nuova Zelanda, Australia, mentre l’Italia è particolarmente restìa a sottoporre lavori, forse per timore di etichette. Ma non si ferma a queste aree la selezione, che anzi quest’anno ha proposto all’attenzione del pubblico l’area nord africana e mediorientale dove si concentrano oggi le zone di guerra: non si tratta più di affontare, come alcuni anni fa, i livelli di linguaggio, ma di intervento sui territori.
Una delle testimonianze più forti di questi giorni è stata dell’anonima (per motivi di sicurezza) rappresentante del Rawa, (Revolutionary Association of the Women of Afghanistan). Un’associazione di donne afghane che dal ’77 è impegnata per i diritti delle donne e per la giustizia sociale, la cui fondatrice Meena fu uccisa nell’87. “Un paese oggi precipitato nel Medioevo – ha detto la rappresentante delle donne – fatto di macerie, vedove e orfani. I governanti di oggi sono quelli che c’erano prima dei talebani e sono i più contrari alle donne, responsabili di stupri e violenze, che usano la religione come una maschera. Vengo da un paese dove tutte le istituzioni sono chiuse, dove non c’è elettricità né telefono, dove la gente non può manifestare. La nostra associazione è impegnata nel campo sanitario, educativo e culturale per un paese libero e democratico”.
E’ forte il contrasto fra l’impatto militante dei documentari e il disimpegno del racconto dei lungometraggi che ormai non hanno problemi di comunicazione con il pubblico più vasto, con l’uso frequente di star e spesso la commedia come genere preferito.
Abbiamo visto a Torino scendere in campo le squadre di calcio femminile dell’Algeria e raccontare come questa sia una affermazione di libertà non semplice (a quanto pare è concesso fare l’attaccante o il portiere, ma non la spettatrice): Les crampons de la liberté di Véronique Taveau dimostrano lo stesso accento di condiscendenza da parte degli uomini verso le israeliane della scuola allievi ufficiali di Company Jasmine di Yael Katzir dove quasi bambine si allenano a puntare contro altri bambini.
Si parla pochissimo di pace nei film di questa area, soprattutto palestinesi: ma il punto è come poter difendere una nazione e la propria terra. Le donne contro i bulldozer, le mamme contro i missili che entrano dalle finestre, le vecchie che vanno a raccogliere le olive e non trovano più gli alberi, sradicati dai coloni, ragazzine che tornano da scuola e non trovano più la casa. La nazione è finalmente ricostituita in Sohua – survivre à l’enfer di Randa Chahal Sabbag, testimonianza di una giovane libanese detenuta in isolamento per dieci anni come tante compagne che ora possono dire di avere una patria, mentre è ancora terra bruciata la Palestina e non sono per niente inattuali i bei documentari di Alia Arasoughly (Hai mish eishi-Questo non è vivere) e di Mai Masri Hanan: a woman of her time dove si è vista la scena migliore del festival. La portavoce palestinese, Hanan Ashrawi, e quella israeliana, pioniere dei trattati di pace insieme a tentare di concordare una soluzione pacifica.
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