TONINO DE BERNARDI


Tra le sue mani la videocamera digitale è un’arma usata con dolcezza per distruggere il mito della femminilità e mettere in scena le avventure di donne diverse, in cerca di sé.
In Lei, 98 minuti a Venezia nella sezione Nuovi Territori, Tonino De Bernardi (Appassionate, Rosatigre, Farelavita), regista che Enrico Ghezzi ha chiamato “teppista dei sentimenti”, intreccia ritratti a tinte forti ma dai contorni sfumati.
C’è Vittoria, incinta, che vive sola nella campagna piemontese, Graça che vaga per le vie di San Paolo, Carla Bottino, prima donna taxista di Torino con un passato di internamento in manicomio, Antonella, transessuale che parla di autodeterminazione, Lula che litiga furiosamente con il suo compagno, Teresa Vilaverde, regista portoghese. E poi ancora Ofelia e Gertrude, Andromaca, Cleopatra e Violetta.
Un mix tra documentario e fiction, prodotto con coraggio da Andrea De Liberato e Amedeo Pagani, in cui si muovono attrici come Iaia Forte, Fabrizia Sacchi, Giulietta De Bernardi, Elena Bucci e, travestiti, Marco Sgrosso e Walter Riccarelli.

Quando hai esordito, nel 1967, il tuo cinema era chiamato “underground”. Ora come lo definiresti?
Cinema dell’apartheid perché mette in scena la separazione, l’isolamento esperito da ogni persona diversa, non conforme alle regole sociali. Come ad esempio Carla Bottino, creatura forte che ha pagato duramente il prezzo della sua autonomia. La conosco da molti anni ed è stata lei a chiedermi di raccontare la sua storia.

Il tema dell’identità di genere è una costante nei tuoi film.
Per me è centrale. Mia madre avrebbe voluto avere una bambina e fin dall’infanzia mi sono molto identificato con il lato femminile della natura umana. Il mio è una cinema che mette in scena la ricerca di un’identità mai univoca e definita una volta per tutte ma sempre fluttuante. La polifonia di figure femminili era già presente in Donne, un mio filmato di 12 ore realizzato in Super8 nel 1983. Ma Lei è più amaro, meno fiducioso. Segna l’apertura di una nuova direzione nel mio cinema ma ne è anche una summa perché racchiude l’attitudine documentaristica con cui mi inchino a ciò che il mondo mi dà, e i mondi della finzione. Sono partito dalle immagini di Joanna girate in Brasile e da quelle di mia figlia Giulietta incinta. Tra loro ho sentito una forte affinità: due donne che non si conoscevano ma condividevano un percorso di ricerca e di autonomia. Il montaggio finale offre una serie di frammenti di esistenze, parabole che si intrecciano dall’inizio alla fine.

Hai radicalizzato la tendenza non narrativa.
Non amo essere troppo esplicito perché stimo il pubblico. Cerco un modo nuovo di narrare, fuori da quello sancito dalle convenzioni. E’ un dovere morale credere in forme linguistiche diverse e esplorare le strade meno conosciute di sé e del mondo.

Perché hai inserito archetipi femminili come Andromaca e Clepatra?
Perché spalancano una porta verso il passato. Ma la mia Cleopatra è un travestito, uno sberleffo al mito cinematografico della regina incarnato da Liz Taylor e oggi da Monica Bellucci. Poi nell’epoca elisabettiana di Shakespeare i personaggi femminili erano sempre uomini travestiti.

In “Lei”, oltre a tua figlia Giulietta, recitano anche Iaia Forte e Fabrizia Sacchi. Come ti sei trovato con loro?
Iaia è una cara amica. Per Lei l’ho ripresa in uno spettacolo in cui è Ofelia e Gertrude e poi fuori dal palcoscenico: un’attrice sdoppiata tra vita e teatro. A Fabrizia Sacchi ho chiesto di impersonare una prostituta e lei ha pensato a Bella di giorno: così appare come una donna borghese, elegante, che conduce una doppia vita. Per me la condizione di fondo nel rapporto tra regista e attori è l’aprirsi l’uno all’altro. Il mio desiderio di filmare nasce dall’adesione alle persone.

autore
03 Settembre 2002

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