Toni Servillo: due film contro l’anestesia televisiva


Toni Servillo quasi prigioniero nel corpo di Giulio Andreotti, un corpo piccolo, malaticcio (un medico gli aveva diagnosticato vita breve, ma l’incauto clinico morì ben prima dell’inossidabile senatore, che oggi ha 89 anni) con la testa rinserrata nelle spalle, le braccia strette al busto, le orecchie da Nosferatu. Un Andreotti nel film mai imitato, ma incredibilmente somigliante nella postura e nell’espressione imperturbabile, quella di una grande tartaruga, indecifrabile se non nel modo di muovere le dita o di giocherellare con la fede nuziale, famoso per le sue battute icastiche, la vocina nasale, i capelli tenuti a posto con la brillantina. Un “divo” raccontato nelle sue debolezze, l’emicrania, combattuta a colpi di aspirine e persino di agopuntura, la paura di un gatto (bianco) che gli sbarra la strada verso il Quirinale, dove infatti non arriverà mai. Per l’attore di Afragola, che ha appena vinto un David, è stato un tour de force impegnativo e avvincente, per lo spettatore un ruolo che resta nella memoria.

Non c’era qualche timore nell’interpretare una persona reale e tanto famosa come è capitato a Helen Mirren in “The Queen”?
C’era qualche imbarazzo e all’inizio vedevo molta distanza fisica tra me e Giulio Andreotti, ma la sceneggiatura mi ha affascinato e ho capito che il personaggio era un simbolo, il simbolo dell’Italia che racconta. Per un attore è difficile interpretare una persona che esiste realmente, ma ho fatto piazza pulita di qualsiasi immedesimazione e ho cercato lo straniamento brechtiano. Dopo tre o quattro sedute di trucco ho capito che potevo trovare l’equidistanza tra la maschera del personaggio e il viso dell’attore. Un approccio costruito nei dettagli per restituire una figura misteriosa. Solo a volte mostra un momento di emozione – paura, tormento, il guizzo di una rapida scelta – ma non esce mai dalla sua gabbia.

Lei ha più volte citato “Todo modo” come un punto di riferimento.
In Todo modo uno dei più grandi attori italiani, Gian Maria Volontè, interpretava Aldo Moro, allora ancora vivo, senza assolutamente imitarlo. Il film, come un libro di Giorgio Manganelli intitolato “Mammifero italiano”, che descrive un congresso Dc come un luogo dall’atmosfera tra il curiale e il vedovile, parla di un ritiro spirituale di democristiani che si tiene in un luogo segreto mentre nel paese infuriano disordini. Ecco come si può sfuggire all’appiattimento cronachistico e andare in una zona metaforica: Todo modo si prende ancor più libertà rispetto al Divo, addirittura in una scena Moro viene allattato dalla sua compagna.

L’Andreotti del film ha un lato umano, momenti di tenerezza con la moglie Livia, come quando si tengono per mano ascoltando Renato Zero che canta in tv “I migliori anni della nostra vita”.
Ho cercato di non demonizzarlo anche perché se fosse stato antipatico sarebbe diventato innocuo, come le macchiette della satira che per tanti anni l’ha visto protagonista. Per tornare a Volontè, penso a come seppe rendere umano Lucky Luciano nel film di Francesco Rosi. E’ la complessità di Andreotti, le sue contraddizioni, ad aver incuriosito un autore come Paolo Sorrentino. In Andreotti c’è qualcosa di nascosto che l’evidenza mostra bene: non dimentichiamo che ha vinto sette Telegatti. Ne parlano come di un uomo che lavorava nell’ombra e invece era anche molto vanitoso e spesso appariva in tv.

In sintesi: chi è Giulio Andreotti?
Non lo so e non credo che il film lo dica. Piuttosto offre al pubblico la possibilità di interrogarsi su che cos’è il nostro paese e su come noi l’abbiamo guardato.

Quanto è importante l’impegno nelle sue scelte artistiche?
Credo che per un attore l’impegno sia importante sempre. Io vengo dal teatro e a teatro c’è un impegno morale quotidiano, continuo, e bisogna ricordare che in questo cast c’è il meglio del teatro italiano.

Due film a Cannes in concorso, questo e “Gomorra”: un caso o, come direbbe Andreotti, la volontà di Dio?
Una coincidenza. La proposta di fare Gomorra è arrivata durante la preparazione del Divo, che è il mio terzo film con Sorrentino dopo L’uomo in più e Le conseguenze dell’amore. Giuro che la prossima volta se mi propongono un film che va a Cannes lo rifiuto… Però sono contento perché due dei nostri autori più importanti parlano della realtà con un linguaggio originale e se questo può servire a contrastare l’ondata anestetizzante che ci viene proposta dalla tv è una buona notizia.

Sono due film che danno un’immagine agghiacciante dell’Italia e qualcuno continua a dire che i panni sporchi si dovrebbero lavare in casa, come disse un tempo proprio Andreotti.
Chi parla di panni sporchi evidentemente non ha niente da dire.

autore
23 Maggio 2008

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