VENEZIA – “La pedofilia è un’emergenza peggiore del terrorismo, almeno se pensiamo alle vittime che colpisce. In America gli abusi sui bambini sono ben di più degli attentati”. Todd Solondz è in concorso con Life during Wartime (Perdona e dimentica), “sequel con variazioni” di Happiness (1989), altra ironica e acida meditazione sulla famiglia contemporanea. E più politico, perché in mezzo c’è stato l’11 settembre e i temi della colpa e del perdono si applicano a ferite collettive, oltre che personali, al cosiddetto disordine post-traumatico. Però il regista di Newark, intellettuale e bruttino come i suoi personaggi, nascosto dietro occhiali dalla enorme montatura verde, ha scelto di proseguire il discorso di Happiness a modo suo, cambiando gli attori e inserendo situazioni inedite, come l’incontro tra il padre pedofilo Ciaran Hinds appena uscito di galera e una solitaria cacciatrice di uomini a cui Charlotte Rampling presta la sua bellezza sfiorita e commovente. Sempre in bilico tra farsa e tragedia, Perdona e dimentica, in uscita il 16 aprile, è una galleria di mostri, dove i bambini sono testimoni e vittime non più inconsapevoli, ma capaci di lanciare un chiaro e disperato appello: “Chissene frega della libertà e della democrazia, io voglio un padre”.
Perché è tanto interessato alla perversione in tutte le sue forme?
Mi interessa come regista, dal punto di vista sessuale, ma anche politico e personale, e cerco di osservarla da varie angolazioni, soprattutto trovando aspetti inattesi.
L’America è un paese in guerra, anche in senso metaforico?
Innanzitutto lo è in senso letterale, almeno per ora. Ma poi la guerra è uno dei motori della storia, esistono addirittura teorie che le danno un valore positivo, per
esempio come sistema di controllo demografico.
Nell’universo che lei racconta, da sempre, gli esseri umani hanno qualcosa di mostruoso. Non solo quelli apertamente crudeli e perversi, ma anche chi cerca di redimere la gente, come Joy, moglie di un uomo ossessionato dal sesso e tormentata dal fantasma di un ex che si è suicidato.
È facile entrare in empatia con chi soffre ed è vittima, ma è molto più umano avvicinarsi ai mostri, ed è anche più toccante. Quando siamo giovani cerchiamo di cambiare gli altri – i genitori, il partner – col tempo impariamo ad accettare.
È più facile, e giusto, perdonare o dimenticare?
Dipende dalle circostanze e dalle persone. Dimenticare a volte può essere un dono, perché alcuni di noi non riescono a perdonare. Però il mio film non vuole dare ricette, ognuno di noi deve dare una risposta a livello personale.
Lei cerca di scioccare il pubblico?
Non cerco di scandalizzare ma di provocare e stimolare. E di superare i miei limiti: ogni film per me è una montagna da scalare, ma non affronto l’impresa se non mi sento pronto.
Lei non ha qualche tabù?
Ma i tabù sono un fatto così variabile, cambiano da cultura a cultura, da un’epoca all’altra! Per gli israeliani la Palestina è un tabù, e viceversa. Bisogna cercare di aprire le persone a esperienze più ampie.
Come ebreo americano si sente più ebreo o americano?
Mi fanno spesso questa domanda e così ho messo nel film un personaggio che sogna di essere seppellito in Israele, come tanti. Però il suolo laggiù è limitato..
La Florida, con le sue casette colorate e ordinate e il clima mite, accentua il senso di assurdità che il film trasmette.
La Florida è un luogo come un altro, anche se credo che molti di quelli che vivono lì rinuncerebbero alla libertà pur di continuare ad avere l’aria condizionata e il parcheggio sotterraneo.
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