“Il lavoro da attore è ancora assolutamente affascinante e pazzesco, il viaggio più incredibile. Un giorno ti ritrovi in Nuova Zelanda, interpretando il padre alcolizzato di un ragazzo che era un pugile, poi magari salti nel mondo Marvel Studios con la miniserie She-Hulk, o in un film horror come Resurrection. Oggi sono interessato a ciò che mi scova”, parola di Tim Roth.
L’interprete inglese è il protagonista adesso in Sundown di Michel Franco, letteralmente “tramonto”, presentato in Concorso alla scorsa Mostra del Cinema di Venezia e al cinema dal 14 aprile con Europictures. Un uomo, quello che interpreta Roth, che lentamente si lascia andare, sembra “morire”, ma prova lo stesso a vivere. “La cosa interessante in questo film, e ne abbiamo parlato molto io e Michel”, dice l’attore, “è che tutti quelli che lo hanno visto si sono ritrovati ad avere una reazione completamente diversa, ed è piuttosto raro. Talvolta il mio personaggio, Neil, appare come un angelo, talvolta sembra un mostro. Divide, ecco. Io sono partito dal presupposto che sia così per quello che ha fatto, ha scoperto quale fosse la situazione, decidendo che la vita che aveva condotto non la volesse più, desidera semplicemente porre fine alla sua esistenza senza alcuna ‘mostruosa’ intrusione. È disposto ad accettare qualunque cosa gli accada, la attraversa dolcemente, indipendentemente dal fatto che la veda o meno. Quando si verifica e vede la violenza, non è che la stia cercando, penso che coincida con l’inizio del proprio di declino”.
L’ordine scardinato che mette a dura prova equilibri e persone viene sconvolto ancora da qualcosa di inaspettato. Franco mette in scena una storia che osserva la realtà, e chiama ad una riflessione sul tema del potere, esplorando le profondità di un’Acapulco più che mai variopinta, divisoria ed estraniante. Il regista nato a Città del Messico, inserito tra gli autori di culto del cinema messicano, stavolta ci porta in una delle località balneari per eccellenza. E lo fa inizialmente con Neil e Alice Bennett (Charlotte Gainsbourg), fratello e sorella, ricchi ereditieri inglesi in vacanza con i figli di lei, Colin e Alexa, che d’un tratto devono ripartire per tornare a casa, sconvolti com’è da un lutto importante. Tutti tranne lui, un cinquantenne distinto (Tim Roth, qui anche nelle vesti di produttore esecutivo), che all’imbarco finge di aver dimenticato il passaporto, cosa che invece non è così. E di fatto rimane lì. Da allora imbastisce in quel luogo una quotidianità ripetitiva e disinteressata, fatta di spiaggia, sole, birre, l’incontro con una ragazza locale, di cui si innamora e viene ricambiato, lontano com’è dai suoi doveri (anche morali) legati alla famiglia, ad una dinastia da portare avanti, e dei soldi a cui vuole rinunciare. Ma perché lo fa? Si nasconde – arreso alle circostanze e pure ad un arresto -, espiando simbolicamente qualcosa in quella sorta di paradiso dove nulla, però, è in effetti tale: impregnato di malavita, soldati in assetto a pattugliare le strade, e qualcosa di prossimo al peggio che arriverà in maniera spietata e senza ritorno. Una pellicola spiazzante e interessante, che nella sua indagine, a tratti allegorica, osserva comunque i lati distorti della società, le sue vette e oscurità, un po’ come fece il lavoro precedente di Franco, l’iper premiato New Orden, nel quale raccontava di violenza e corruzione, di protesta, di destini segnati. Una guerra fisica, diventata anche psicologica, stratificata, in un universo di grandi alberghi, motel low budget, turisti (non) per caso, colpi di scena. Ma in tutto questo c’è un senso pervasivo, lo si scopre nel finale, quello di un film asciutto nella narrazione (solo 80 minuti), eppure sapiente nel districarsi gradualmente tra le rovine dell’anima, quanto nelle emozioni e nevrosi che la percuotono.
In una carriera quasi lunga 40 anni (il debutto avvenne grazie a Stephen Frears in Vendetta, 1984), Roth scorre le immagini di vita professionale, a partire da Quentin Tarantino e Le iene, 30 anni quest’anno.“Fu estenuante, siamo stati due settimane in un unico posto, ne avevamo solo cinque, più o meno, per girare l’intero film. Ma in quel magazzino, durante le riprese, sdraiati in una pozza di sangue, era piuttosto scomodo. Ma voglio molto bene a Quentin, sono andato anche al suo matrimonio, è un genio assoluto, un grande cultore di cinema”.
E soprattutto non può dimenticare Giuseppe Tornatore e La leggenda del pianista sull’oceano, nei pnani di Novecento, che segnano – ancora – molto nel suo racconto professionale. Un binomio importante.“Ricordo che è stato difficile, non sapevo suonare affatto il piano, quindi ho dovuto iniziare ad allenarmi per mesi. Ci saranno state ventuno sezioni da imparare, dovevo dare l’impressione che potessi farlo, mettevo le mani dietro la schiena, ci giocavo, ma è stato davvero molto complicato”. E il primo incontro con Morricone? “Posso raccontare la storia, la ricordo bene”, continua. “All’epoca, durante le riprese, avevo questo incredibile insegnante di pianoforte, un ragazzo straordinario, Ian. Era con me ovunque andassi. Avevamo due tastiere, lui suonava, ed io lo guardavo. Poi un giorno mi dissero ‘devi incontrare Ennio’. Io ero un suo fan, ovviamente. Andammo a casa sua, ci aprirono, lui non ci prese in considerazione, Ian era terrorizzato. Morricone aveva un pianoforte praticamente in ogni stanza del suo appartamento, Giuseppe era con noi. Entriamo ed Ennio dice a Ian di sedersi, suonando il tema d’amore del film. Lui trema, suda, ma lo suona interamente. Un momento terrificante, cala il silenzio. Qualche giorno ci ritroviamo sul set, nella splendida cornice di Cinecittà. È la scena della sala da ballo, la band suona, e io devo ‘eseguire’ un motivo jazz. Sapevo che Ennio era lì, appena fuori campo. Tornatore dice ‘azione’. È una lunga sequenza, la facciamo e rifacciamo. Una volta finita, mi dirigo verso Ennio: mi guarda, ed è allora che lo vedo piangere. Mi abbraccia a sé, chiamandomi ‘Maestro’. Fu fantastico essere considerato all’altezza da una leggenda del genere, ma anche averlo finalmente visto così sereno e rilassato”.
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