Non è la prima volta che l’immaginario circense è rappresentato da Tim Burton, che già nello stupendo Big Fish aveva messo in scena una lunga e onirica sequenza con Danny DeVito nei panni di uno strampalato proprietario di circo, proprio come succede in Dumbo. Eppure, già all’epoca Burton aveva dichiarato di odiare il circo sin da bambino, trovando da sempre terrificanti i clown e provando una certa inquietudine all’idea che gli animali potessero essere maltrattati. Anche se è proprio il circo, forse, l’ambiente più connesso al peculiare concetto burtoniano di ‘famiglia’: un nucleo, quasi mai tenuto insieme da legami di sangue, che si stringe attorno al protagonista per accoglierlo e proteggerlo. Concetto che ha, in qualche modo, trasposto anche nell’attesissimo Dumbo, rifacimento live action che arriva a quasi 80 anni dal classico Disney. Per la verità il Dumbo di Tim Burton non è un remake vero e proprio: molti gli scarti di sceneggiatura rispetto al film del 1941, non ultimo una chiara vena animalista che sul finale sembra inneggiare alla libertà e a un circo, finalmente, senza animali.
Tra le differenze che saltano all’occhio, oltre a un sorprendente e rassicurante lieto fine, non compare la sequenza dei corvi, incolpata all’epoca di razzismo a causa dell’accento afro-americano dei volatili ritenuto un modo per scimmiottare le persone di colore. Colpisce, poi, il riferimento alla Parata degli Elefanti Rosa, una delle sequenze più memorabili e discusse del primo Dumbo, che da delirio allucinato e allucinate di un elefantino ubriaco, si ammorbidisce e addomestica nella rotondità sognante di enormi bolle di sapone a forma di pachidermi danzanti. Rappresentazione forse più adatta al pubblico di giovanissimi cui il film è rivolto, ma che si allontana definitivamente da quel gusto ironico e malinconico per il cinema gotico che fa di questo nuovo Dumbo certamente una pellicola visivamente imponente e visionaria, ma anche una zuccherosa favola disneyana parecchio distante dal romanticismo dark del suo autore.
Tra i personaggi umani, che sono ben presenti nel nuovo Dumbo, Holt Farrier (Colin Farrell) ex star del circo appena tornato dalla guerra senza un braccio e che ritrova i due figli orfani, Milly (Nico Parker) e Joe (Finley Hobbins); il proprietario del circo Max Medici (Danny DeVito) che assume appunto Holt e figli per occuparsi di Dumbo, elefantino neonato con delle orecchie sproporzionate che lo rendono lo zimbello del suo circo di serie B. Ma quando si scopre che Dumbo sa volare, lo spietato imprenditore Vandevere (Michael Keaton) e la bella trapezista Colette Marchant (Eva Green) cercano di trasformarlo in una star volante.
Nelle sale in 700 copie dal 28 marzo, la versione italiana di Dumbo ha voce di Elisa che canta la canzone finale Bimbo mio e doppia la sirena del circo, Miss Atlantis.
Tra tutti i film Disney ha scelto Dumbo, l’elefantino diverso ed emarginato, perché è il personaggio che più le si avvicina?
Esatto. Dumbo è la storia che più mi si addice per via delle tematiche che mi sono vicine e che ho pensato fosse possibile trasformare in qualcosa d’altro. E’ il personaggio che mi è più affine, il simbolo della figura dell’artista che fa fatica ad essere accettato. Nell’avvicinarsi a un classico, secondo me, non si poteva fare un semplice remake di un film datato.
Dumbo, infatti, non è un semplice remake: sono diverse le differenze nella sceneggiatura rispetto al film del 1941, a partire dal finale. Anche la componente umana qui è molto più presente e protagonista.
Nella sceneggiatura ci sono diversi parallelismi tra la vicenda di Dumbo e quella dei personaggi umani. Li accomuna il senso di perdita e di assenza: i bambini che hanno perso un genitore, Holt che ha perso un braccio e il lavoro. La separazione dei figli dai genitori, poi, è un tema primitivo e per niente razionale ascrivibile a ogni rapporto genitore-figlio. Da questo sentire comune è nato un bel parallelismo che mi ha permesso di esplorare il tema della famiglia, intesa in vari sensi.
Ad esempio la sequenza allucinata e allucinante della Parata degli Elefanti Rosa, che tanto fece discutere a suo tempo, qui è trasformata nella magia di enormi bolle di sapone danzanti.
Effettivamente era una sequenza strana, lo era allora ma lo è ancora oggi. Era fondamentale che la scena, così iconica, rimanesse in qualche maniera nel film, ma ne ho fatto un’immagine un po’ meno da incubo, ispirandomi all’osservazione di alcuni artisti che usano le bolle di sapone. La sequenza è anche un modo per entrare nello spirito di Dumbo, per avvicinarsi al suo modo di guardare il mondo.
Non compare neanche la sequenza dei corvi, incolpata di razzismo per l’accento afro-americano ritenuto all’epoca un modo per scimmiottare le persone di colore.
Francamente quei personaggi erano presenti in un film che apparteneva alla sua epoca e che ha fatto il suo tempo. Per non dimenticare poi che c’era la questione razzista che non poteva essere sottovalutata. Nella nuova sceneggiatura si è scelto di puntare sulla semplicità del tema: un personaggio strano che riesce ad utilizzare la sua debolezza trasformandola in qualcosa di bello. Una sorta di freak che trasforma la sua diversità in vantaggio.
Come nel film del 1941, i grandi e intensi occhi azzurri del protagonista colpiscono immediatamente. Ci avete lavorato a lungo?
Poiché si tratta di un personaggio che non parla, le emozioni dovevano essere espressa in una maniera differente, occorreva andare alla ricerca di un forma semplice e pura in un mondo così caotico come quello del circo. La soluzione migliore è stata farlo attraverso gli occhi del protagonista, ci abbiamo lavorato molto.
Nel finale si può leggere, oltre che un inno alla libertà in generale, anche un appello a un circo senza animali. Ha voluto trasformarlo in un film animalista?
Pur avendo fatto un film sul circo, il circo non l’ho mai amato. Sin da bambino i clown mi facevano terrore e non mi piaceva vedere gli animali in un circo. Lo zoo è un po’ diverso, magari i bambini lì possono anche imparare qualcosa o le strutture possono servire a preservare specie in pericolo. Ma mi sento a disagio con le performance degli animali nel circo. Nessun animale dovrebbe stare lì, ad eccezione forse di cavalli e cani che sembrano divertirsi.
Rispetto al rapporto con la Disney, decisamente travagliato agli inizi della sua carriera, è cambiato qualcosa? Questa volta ha ottenuto la libertà artistica che cercava?
No, la libertà nessuno te la dà, ma è la vita stessa che è così. È un po’ come la famiglia, c’è del buono e del meno buono, e non la si può mai amare completamente. Non c’è nessuna polemica da fare, è semplicemente così.
Le piace il risultato ottenuto o riguardando il film c’è qualcosa che cambierebbe?
Finito un film come questo ci si sente particolarmente vulnerabili. Magari tra tre anni potrò riguardarlo con il dovuto distacco e dire cosa avrei cambiato.
Dumbo conferma la sua predilezione al lavorare con attori con cui ha già collaborato in passato: Danny De Vito, Eva Green, Michael Keaton. Cosa la spinge a scegliere più volte gli stessi interpreti?
Fare un film ricrea la condizione di famiglia, e per me è molto importante lavorare con gente che conosco bene. Anche perché l’ambiente del circo è un po’ come quello di un film: un gruppo di persone un po’strane che cercano di realizzare qualcosa.
I suoi ultimi film sembrano andare sempre più verso un approccio digitale. Si sta convertendo al CGI?
Le cose cambiano, abbiamo a disposizione nuovi strumenti e nuove tecnologie che è bellissimo esplorare. Mi manca l’aspetto più tradizionale? Ma certo! Nonostante tutto, continua ad essere presente in me la passione per la natura tattile del cinema.
Sta per ricevere il David di Donatello alla Carriera, con che emozioni si avvicina a questo riconoscimento?
Ci tengo particolarmente, considerando che di premi non ne ricevo moltissimi e che qui mi sento a casa. In Italia ci sono, poi, diverse figure che sono state per me fonte di ispirazione: da Fellini, a Mario Bava e Dario Argento. Quest’ultimo, oltre ad essere uno straordinario regista, ha un negozio pazzesco in cui vado ogni volta che vengo in Italia. È il mio appuntamento fisso.
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