Hollywood, anni ’80. Maxine Minx, un’attrice di film per adulti con l’ambizione di sfondare nel cinema tradizionale, trova finalmente l’opportunità che ha sempre cercato. Tuttavia, un enigmatico serial killer sta prendendo di mira le celebrità di Hollywood, e questa serie di omicidi minaccia di portare alla luce i segreti oscuri del suo passato.
Con MaXXXine, in sala con Lucky Red, Ti West conclude la trilogia iniziata con X: A Sexy Horror Story e proseguita con Pearl, confermandosi una delle voci più originali del cinema di genere dell’era Covid e post-Covid.
Il regista è a Roma per accompagnare alcune proiezioni per il pubblico del film, che in qualche modo rappresenta un lato degli anni ’80 che nessuno vuole mostrare, quello più sporco e viscerale, controverso, ma allo stesso lo fa in maniera estremamente realistica, accurata e soprattutto indipendente da seduttive logiche di mercato che imbrigliano l’horror, tradizionalmente uno dei generi che maggiormente ha bisogno di indipendenza e libertà.
Esattamente come la protagonista, interpretata ancora una volta da Mia Goth.
L’iconica attrice, che con la saga ha raggiunto la notorietà proprio con questa saga, torna a (s)vestire i panni di Maxine, dopo che nel secondo capitolo aveva interpretato sua nonna.
Un viaggio generazionale per un volto e un corpo che West utilizza come un portale verso la sua personale visione della Storia (e la maiuscola non è un refuso).
Ha sempre avuto l’idea di fare una trilogia?
No. All’inizio avevo scritto solo X, ma poi è arrivato il Covid e ci siamo dovuti spostare in Nuova Zelanda, era l’unico paese in cui si potesse lavorare, ed eravamo forse l’unica troupe attiva in quel periodo.
Poi cosa è accaduto?
Che ci ho preso gusto. Volevo soprattutto restare in Nuova Zelanda e naturalmente continuare a lavorare, così è venuta fuori l’idea di Pearl. Potevamo contenere i costi perché avevamo già la location della fattoria, lo staff era in piedi, abbiamo realizzato i due film uno dietro l’altro e di fatto il secondo è costato la metà del primo.
E MaXXXine?
E’ stato naturale. Mi sono detto che se i primi due avessero avuto successo ne avrei voluto fare un terzo, ma in quel caso sapevo che volevo ambientarlo ad Hollywood. Così è nata la trilogia, man mano che le cose mi si evolvevano attorno.
Con MaXXXine in particolare viene fuori un quadro inedito degli anni ’80, che nessuno mostra. In Stranger Things, ad esempio, bisogna finire nel sottosopra per trovare un lato oscuro, ed è qualcosa di prettamente simbolico…
La mia intenzione era innanzitutto di essere accurato, rispetto al 1985 che porto in scena. Non volevo che lo spettatore risultasse distratto da elementi esterni, volevo che sentisse genuinamente quel periodo e questo significa che se interpreti il luglio del 1985, non tutto sono vestiti con gli abiti che sono usciti quell’anno, così come le automobili e l’arredamento. Quell’annata comprende anche elementi degli anni ’70 e ’60, o magari dei primi anni ’80, e questo è il primo punto.
E il secondo?
Devi girare con attrezzature adeguate. Se usi tecniche e strumenti moderni lo spettatore si accorge che qualcosa non torna. Evito movimenti che le macchine da presa non avrebbero fatto in quegli anni, così come obiettivi che non esistevano all’epoca.
E per quanto riguarda i temi?
Era un periodo storico decisamente rilevante, dal punto di vista politico. Poi c’era un immaginario violento, se vogliamo, pensiamo ad esempio all’esplosione dell’heavy metal, sono tutte suggestioni che ho cercato di integrare.
Considera davvero Mia Goth la sua musa?
Non direi, non potevo vederla in questo modo perché quando ho scritto la sceneggiatura del primo film non la conoscevo. Ma quando ci siamo incontrati lei ha capito perfettamente quello che stavo facendo e il suo personaggio, lo ha reso suo, ci è entrata totalmente ed è diventata quella persona. A quel punto mi sono adattato a lei e al modo in cui lo personificava. Anzi, li personificava, perché sono due personaggi. E i temi che i due personaggi portano avanti sono universali, primo fra tutti il desiderio di fare una vita diversa da quella che si conduce, è piuttosto facile identificarsi.
A oggi, l’horror sembra un genere piuttosto autonomo e che permette ancora una certa libertà creativa agli autori, concorda?
Nel mio caso assolutamente sì. La A24 non mi ha sottoposto a nessun tipo di pressione creativa, mi ha dato tanto supporto e sostegno. Ho scritto i film, li ho realizzati, li ho consegnati e gli sono piaciuti, non ho mai avuto conflitti. Magari con una major il discorso sarebbe diverso.
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