VENEZIA – “Non sentitevi in colpa, non si tratta di quanto amiate vostro figlio, ma di proteggerlo”: questa può essere considerata la frase chiave di un film molto delicato e delle variegate sfumature per disegnare il tema del male oscuro di un individuo. In questo caso Nicholas (Zen McGrath), 17enne newyorkese, figlio di Peter (Hugh Jackman), Kate (Laura Dern), nipote per via paterna di Anthony Hopkins e fratello di Theo, neonato dall’unione di suo papà con Beth (Vanessa Kirby).
The Son di Florian Zeller – film in Concorso, tratto da Le Fils, opera teatrale del drammaturgo francese – comincia con una ninna nanna e finisce – o quasi – con un colpo di fucile o, forse più puntualmente, con un senso di colpa, che però davvero tale non può essere definito.
“È vero che il film è un adattamento da un pezzo teatrale fatto in Francia, ma New York, un crocevia nel mondo, ho pensato fosse il posto giusto per raccontare una storia universale. Ho scritto la storia molti anni fa ed è molto personale, non per la mia storia, non è sufficiente parlare di noi stessi, volevo parlare delle paure di tutti”, spiega Zeller.
Nicholas non frequenta la scuola da tempo, nonostante tutte le mattine esca di casa con lo zaino e i libri: la madre se ne rende conto, condivide il problema con il padre, da cui è separata ma con cui sussistono rapporti distesi, seppur s’avverta in lei una grande malinconia per l’amore che è stato, forse mai sfumato; l’adolescente stesso, con cui Peter cerca di parlare, si fa reticente, drammatico, fino a dirgli: “la vita mi fa colare a picco … vorrei vivere con te”, affermazione accolta dal papà, così che Nicholas si trasferisce con lui, il piccolo e Beth, che accetta un po’ faticosamente l’idea, essendo sola alle prese quotidiane con un neonato, ma trovando anche le risorse per rassicurare il compagno, che peraltro ha visto sulle braccia del figlio delle cicatrici.
Jackman racconta: “avevo letto la sceneggiatura e avevo visto ‘il padre’, ho avuto la sensazione che quel ruolo fosse la parte giusta per me, in questo momento della mia vita. Ho mandato una mail a Florian Zeller e sono riuscito ad avere la parte”. Racconto a cui risponde il regista, dicendo: “dopo otto minuti che gli parlavo ho avuto la sensazione che avesse le caratteristiche giuste per quel ruolo, è stata la migliore scelta che potessi fare”.
Per Vanessa Kirby: “Florian è un maestro della comunicazione, di ciò che non viene detto. Ci sono molte cose represse nell’interiorità dei personaggi, c’era molto non detto e questo ha reso ancor più interessante recitare in questo film. Io sono ispirata dal cinema che ci chiede di porci domande. Ho letto la sceneggiatura e mi sono chiesta cosa faremo noi in quelle situazioni, e so che Florian sa raccontare queste storie. Quando vediamo quelle situazioni sullo schermo so che altri si fanno le stesse domande e mi sento meno sola”.
Nel frattempo, nel film, la vita di Peter, manager di successo, potrebbe avvicinarsi alla politica di Washington, ma tutta la vicenda di The Son – e quindi le vite di tutti i personaggi – ruota ed è condizionata dall’esistenza affaticata di Nicholas: “sei infelice?”, gli domanda diretta Beth, in un dialogo a due. “Non lo so”, risponde lui e poi le confessa: “è come se m’avessero tagliato a metà”, infine accusandola di non essersi fermata dinnanzi al sapere che il padre era un uomo sposato. Quindi la causa del malessere di Nicholas è stato il divorzio dei genitori? O forse – domanda che serpeggia per tutto il film – è più lecito chiedersi: “cosa è successo nella vecchia scuola?”. In ogni caso, rassettando la stanza del ragazzo, Beth rintraccia sotto il guanciale un coltello e necessariamente informa il padre. L’angoscia cresce e s’infittisce la gamma dei dubbi, e Nicholas comincia a essere seguito da un terapista.
Da New York – città che Zeller ama mostrare negli stacchi tra gli interni e gli esterni, non in maniera turistica, ma omaggiando architetture, quartieri, materiali riconoscibili come soggettivi della Grande Mela – per qualche istante s’arriva a Washington, dove Peter incontra suo padre: un pranzo che svela un rapporto formale, negativamente volitivo, privo affettivamente, che palesa lo squarcio emotivo interiore di Peter-figlio. “La scena con Anthony è stata molto bella e ci ricorda che siamo tutti figli, anche quando siamo già genitori: lui è un grande, una persona piena di vita, di gioia ed è stata molto bella da fare la sequenza”, per l’attore. Mentre Zeller ricorda il suo precedente film con Hopkins e spiega: “In The Father uso la scena per raccontare la scena: in questo film volevo raccontare una storia in modo più lineare e diretto, volevo affrontare l’argomento diversamente, dal punto di vista delle persone che vivono queste situazioni. Quindi non era una questione di scenografia, questa è una storia più legata al punto di vista dei personaggi. The Father era oggettivo, questo è un film soggettivo”.
Sempre più le quotidianità di ciascuno dei personaggi in scena – in un crescendo – sono catalizzate da quella di Nicholas, che nel frattempo va a casa della mamma, sostenendo che per il padre e Beth “sono soprattutto un problema” e aggiungendo che “non sono fatto per questa vita, non riesco ad affrontarla. Sono stanco di star male”, affermazione che potrebbe aprire a un desiderio di reazione, alla vera voglia di vivere. E invece Nicholas viene ricoverato in un reparto di psichiatria, in un tira e molla tra le necessità di cura, che suggeriscono di lasciarlo lì in osservazione data la diagnosi di “depressione acuta … di disconnessione dalla realtà”, ma – altrettanto – con la sua concomitante riluttanza al luogo e alle terapie, lamento capace di muovere a compassione i genitori, che lo riportano a casa dopo pochi giorni di degenza. Tornano a casa tutti e tre – nel frattempo Beth e Theo sono qualche giorno fuori città – e per un’istante la (vecchia) famiglia sembra felice, nel ricordo – anche visivo – del passato, quello tra le onde celesti di una Corsica assolata, acque in cui un piccolo Nicholas aveva imparato a nuotare da solo, mentre Peter lo spronava ripendo: “io sono vicino a te”.
“C’è un momento in cui la famiglia si riunisce senza essere nella stessa stanza ed è un bel momento. Il figlio cerca di trovare una colpa al divorzio, cosa che succede spesso, soprattutto nei casi di disturbo psichico. Noi non sappiamo da dove arrivino queste frustrazioni e non era mia intenzione cercare una motivazione ma solo raccontare”, dice ancora il regista. “L’amore non è sempre sufficiente” – continua Hugh Jackman – Tutte le persone del film amano, ma lo stesso tempo sbagliano: tutti noi abbiamo bisogno di amici e di un villaggio, di una comunità intorno. Anche se c’è amore, spesso il senso di impotenza prende il sopravvento, soprattutto nei casi di salute mentale, spero che questo film aiuti a combattere il senso di isolamento che vivono le persone in queste situazioni”. Sempre per Zeller: “La paura di sbagliare, di non prendere la decisione giusta, è un dilemma che proviamo tutti ed è difficile come genitore, ma fa parte dell’essere tale. Loro prendono la decisione sbagliata per il figlio, pensando di risolvere da soli, ma può capitare. Il film vuole anche raccontare che si può sbagliare”.
Su un delicato confine tra desiderio e verità dei fatti, fa la comparsa in scena un romanzo – sì, perché Nicholas ha sempre manifestato il sogno di voler essere scrittore: La morte può attendere, recita il titolo.
The Son è un film che con un dinamismo di racconto ricco, una densità di sentimenti e di scena cinematografica importanti, mette in luce, e si prende il coraggio di affermare che – seppur spesso la connessione affettiva con un caro possa smuovere fortissime emozioni e un senso di protezione particolarmente amplificata – laddove ci sia diagnosi di una malattia psichica, siano da considerare come una Bibbia le parole del medico (del film), quando afferma: “non si tratta di quanto amiate vostro figlio, ma di proteggerlo” con le cure dedicate.
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