Il degrado della periferia, l’anonimato di un Sud che è tutti e nessuno, il corpo e l’anima di un uomo, a cui dà vita sullo schermo Paolo Briguglia, un’anima della spazzatura, un netturbino, un essere umano perdente, morso dalla paura di qualsiasi cosa lo abbracci, dal passato al futuro, ma con il bruciante desiderio di pulire la società.
Per questo anti-eroe, parte minore e quasi inutile della meccanica di un mondo la cui legge è quella dell’uomo forte e della logica del denaro, qualcosa però gorgoglia nell’intimo a tal punto da essere volano per un agire che mette a rischio tutto…
Alfonso Bergamo aveva presentato in anteprima The Garbage Man al Noir in Festival 2023, Fuori Concorso, dove Tony Sperandeo – co-protagonista, accanto a Roberta Giarrusso e Randall Paul – era stato insignito del Premio Luca Svizzeretto 2023 e nell’occasione milanese ci aveva raccontato il suo ruolo: il film esce il 28 novembre al cinema.
Alfonso, perché per il personaggio di Briguglia ha scelto la totale assenza d’identità? Non sarebbe stata altrettanto efficace una banalissima identità alla ‘Mario Rossi’?
E’ interessante la questione… Noi volevamo procedere in questa direzione perché altrimenti qualsiasi nome ci portava subito ad avere un’empatia, che nella fase iniziale della storia non volevamo dare, questo già in fase di sceneggiatura; poi, quando ho iniziato a lavorare con Paolo s’è palesata ancora di più questa cosa, perché abbiamo cercato di spogliare del tutto il personaggio, infatti ha pochissime parole, pochissimi dialoghi, per seguire attraverso di lui il flusso che io avevo in testa, quello di portare l’immagine al di sopra del personaggio e della storia stessa.
Sia per il personaggio del netturbino, che per quello di Sperandeo, qual è il punto di bontà e quale il punto di cattiveria di ciascuno?
Nel personaggio di Paolo il punto positivo è l’amore che prova nei confronti di sua madre e della sua famiglia, e il senso di protezione: è un puro, una persona che vuole amare e uscire da quel tipo di realtà; il punto negativo sta in quello che succede quando gli vengono toccati gli affetti, e lui non riesce più a controllarsi; lì abbiamo anche giocato sulla metafora dei rifiuti, del rimosso. Per quanto riguarda Tony, il personaggio di Rosario è un mafiosetto locale, questo è l’aspetto negativo, che rappresenta un po’ la realtà delle periferie italiane: mentre l’aspetto positivo è che, nonostante tutto, soprattutto nei confronti della barista, cerca di essere quasi come un padre, c’è quindi una sfumatura umana.
Rosario ha un look specifico: indossa un completo color rosa cipria, che non ci si immagina esattamente per un uomo di quella razza. C’è stata un’iconografia di riferimento? Com’è avvenuta la costruzione estetica?
Questo discorso riguarda tutti i protagonisti: ho cercato di lavorare sui colori fin dalla pre-produzione, dai costumi alla scenografia retrò dietro a Sperandeo; per me, ogni colore ha un significato introspettivo, emotivo. Per Rosario volevo un colore che avesse dell’estro, perché lui in realtà è un artista.
Sperandeo l’ha scelto per il suo primo film, e adesso per questa seconda opera: cosa l’affascina e cosa la convince tanto da continuare a scegliere lui, per altro per due ruoli davvero differenti?
L’ho scelto anche tante altre volte, per alcuni corti fatti insieme: è il mio attore feticcio, perché lui non ha un carattere facile ma con me, fin dal primo giorno del primo lavoro, c’è stato amore a prima vista, empatia, parliamo la stessa lingua, e poi lui ha un volto che parla da solo, con una maestria incredibile e sul set porta armonia: non ti aspetteresti da un David di Donatello che parli – come fa lui – con gli emergenti, con i macchinisti, per cui è veramente una persona molto affabile, umana; è un matrimonio artistico che funziona.
Un altro personaggio è quello di Randall Paul, che ho percepito quasi come un padre putativo. È commovente sia la parte più lieve che porta, sia la delicatezza. Come ha immaginato prima il carattere e poi com’è ricaduto su di lui il ruolo?
Lui nasce in sceneggiatura con la reference di Drive di Refn, un mentore: siamo riusciti con lui a portare un po’ di internazionalità all’interno del progetto; per lui è stato difficilissimo parlare in italiano ma è fondamentale e apre un po’ gli orizzonti.
È anche per questo che ha scelto un titolo inglese?
C’è una cosa mai detta finora, cioè che la prima sceneggiatura sia stata scritta in inglese.
Come mai?
L’idea iniziale era di girare negli Stati Uniti, poi per esigenze produttive l’abbiamo portato da noi, lasciando un po’ sia nei dialoghi, che in alcune situazioni, quell’atmosfera.
In un discorso ampio che chiami in causa il noir e le piattaforme, pensa che questo genere sia penalizzato da questa forma distributiva o invece rintraccia un valore aggiunto, considerando pubblico, fruizione e reazione?
Io non sono contrario alle piattaforme perché si è arrivati a un punto in cui l’80% delle persone ha in casa un ottimo televisore, quindi anche film come il nostro, in cui abbiamo puntato tantissimo sull’immagine, sui colori, può essere fruito benissimo; se questa è una strada che porta anche a un pubblico più vasto, perché no? E’ chiaro che la sala abbia il suo fascino, sia insostituibile e per un genere come quello del film non metta a rischio l’interruzione della suspence e ti faccia fruire l’aspetto visivo in un’altra maniera, per questo anche il lavoro distributivo fatto per far uscire il nostro film in sala.
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