Il regista tedesco Veit Helmer indubbiamente ama gli spazi sconfinati delle ex repubbliche dell’Unione Sovietica bagnate dal mar Caspio. Nel 2011 ha girato Baikonur nel cosmodromo dell’omonima località in Kazakistan. Prima, nel 2008 ha girato Absurdistan – premiato al Sundance Film Festival – in un villaggio sperduto dell’Azerbaigian, dove le donne fanno lo sciopero del sesso contro i mariti atavicamente pigri.
Con The Bra-Il reggipetto del 2018 (nelle sale italiane dal 14 novembre con Lab80film), c’è un ritorno in Azerbaigian, quasi a ricordare che sensualità, desiderio e malinconia abitano questi Paesi, che sembrano lontani, come se fossero stati catturati in un sogno. La storia è questa: un vecchio treno merci passa attraverso i grandi prati sotto le montagne del Caucaso. Nella cabina Nurlan (un favoloso Predrag “Miki” Manojlovic), il macchinista, guida il treno lungo il percorso che passa attraverso un angusto quartiere di Baku, dove il tracciato dei binari è così vicino alle case da corrispondere esattamente alla strada che separa tra loro i modesti edifici. La vita del quartiere si svolge sui binari: gli uomini bevono il tè seduti ai tavolini posti sulle rotaie, le donne stendono i panni su fili sospesi sopra il tracciato ferroviario. Quando il treno passa, il fischietto di un ragazzino (Ismail Quluzade) risuona tra le pareti delle case e gli abitanti si alzano, raccolgono frettolosamente i loro oggetti, scappano nelle case e tutto ciò che resta è intercettato dalla carrozza guidata da Nurlan. Lui, a fine giornata, raccoglie gli oggetti rimasti attaccati al treno e li riporta ai loro legittimi proprietari: lenzuola, palloni, piume di pollo. L’ultimo giorno di lavoro, in procinto di andare in pensione (mentre il sostituto macchinista si sta preparando: è Denis Lavant, un’apparizione funambolica), trova attaccato al tergicristalli un oggetto inusuale: un reggiseno, lo stesso reggiseno che aveva attirato la sua attenzione, lo spazio di un battito di ciglia, mentre una donna lo stava togliendo. Nurlan lo mette nella sua valigia e lo porta nel villaggio di campagna in cui vive, seguito dal ragazzino col fischietto. Nei giorni a seguire, pensare alla donna che ha perso quel reggiseno gli toglie il sonno. La grande solitudine in cui vive lo spinge infine a mettersi alla ricerca della sua proprietaria, come fosse il Principe Azzurro con la scarpetta di vetro: una ricerca che si rivelerà difficile, buffa, commovente, e che per lui finirà per coincidere con la ricerca dell’amore e dell’appartenenza.
The Bra-Il reggipetto non è classificabile, perché opta per un cinema senza dialoghi, sostituendo le parole con suoni e musica. È una storia senza parole. Il cinema ha il suo linguaggio, la sua grammatica, i suoi riferimenti, punteggiati qui dalla musica, dai grugniti o dai suoni della vita. Il regista spiega così la sua scelta: “Ho deciso di fare un film senza dialoghi perché considero il parlato un modo per raccontare storie non-filmico. Il cinema è essenzialmente fatto di storie che sono narrate attraverso immagini e suoni, ma non si può semplicemente eliminare i dialoghi dalla sceneggiatura. I film senza dialoghi devono essere concepiti proprio in quanto tali, questo comporta un lavoro notevole nella scrittura”.
Per i ruoli femminili, il regista ha chiesto alle attrici che più stima di diversi paesi: Paz Vega, Maia Morgenstern, Chulpan Khamatova… Anche se a qualcuno, questa storia senza parole, può apparire una favola che si trascina, e le immagini leccate, quasi un estetismo da cartolina, forse ha a che fare – sembra voler suggerire il regista – con la dolcezza della vita, come con la crudeltà degli esseri umani, e la nostalgia di un mondo in cui i treni a vapore collegavano le persone, anche nei villaggi più remoti.
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