Susanne Bier: “Ho vinto un Oscar ma so quanto costa un litro di latte”

La regista, premio Oscar con In un mondo migliore, è tornata in Danimarca per girare A second chance, dramma che ruota attorno a uno scambio di neonati


TORINO – Susanne Bier è tornata in Danimarca, dopo Una folle passione, per raccontare un dilemma morale come spesso nel suo cinema. A Second Chance, al TFF in Festa mobile, è la storia di uno scambio di neonati e di due famiglie, una disfunzionale e inadeguata, formata da un tossicodipendente violento e dalla sua compagna in balia degli eccessi dell’uomo, e l’altra borghese apparentemente sana, composta da un poliziotto e da sua moglie. A questi personaggi si aggiunge quello di Simon, anche lui poliziotto e amico del protagonista, ma con un matrimonio fallito alle spalle e la propensione ad alzare il gomito. Premio Oscar con In un mondo migliore, Susanne Bier a Torino ha incontrato i giornalisti per parlare di questo film che sarà distribuito di nuovo da Teodora, società molto vicina alla regista.

Voleva affrontare il tema dell’estrema difficoltà di essere madre e dell’ambivalenza che spesso porta a situazioni drammatiche?
Il mio punto di partenza, quando scrivo un film, non è mai un tema. Prendo sempre le mosse da un personaggio, da una scena, da un’immagine. In questo caso l’immagine è quella di una persona che prende in braccio un neonato che non sta bene, che rischia la vita. In Gran Bretagna c’è stato un caso famoso, quello del neonato Pete, che è stato visitato decine di volte dai servizi sociali, ma alla fine è morto.

Il film mette in scena due situazioni familiari diametralmente opposte, anche se poi emergono elementi in comune.
Abbiamo voluto mescolare le carte, le due situazioni sono speculari, si tratta di due famiglie e due ambienti sociali diversi, opposti, ma man mano si capisce che le cose non sono così chiare come appare all’inizio. Mettiamo lo spettatore in una situazione di disagio con la sensazione che accadrà qualcosa. E infatti qualcosa accade.

Entrambe le famiglie hanno delle colpe.
Non parlerei di colpe. I due tossicodipendenti non stanno accudendo il bambino come dovrebbero, è evidente. Nell’altra famiglia non identifichiamo una colpa, ma capiamo che non è tutto come sembra, che c’è qualcosa sotto l’apparenza. La madre borghese è una persona profondamente infelice, che ha paura di se stessa.

Cosa vuol dire avere una seconda possibilità?
Quasi tutti hanno una seconda possibilità nella vita. Spesso le seconde opportunità ci vengono offerte ma noi non riusciamo a vederle.

Considera questo film un thriller?
Non è del tutto corretto definirlo così, è piuttosto un dramma che contiene alcuni elementi thriller come avveniva anche in In un mondo migliore, quindi penso che si inserisca nel mio percorso. Ogni opera per me deve avere qualcosa di nuovo e sconosciuto, altrimenti mi annoierei e anche lo spettatore si annoierebbe.

Com’è la situazione del cinema danese?
Direi buona, il nostro pubblico va a vedere i film nazionali e questo grazie a un rapporto sano tra sceneggiatori e registi. La tradizione del cinema d’autore europeo tende a privilegiare film d’arte che possono alienare il pubblico. Quest’anno ho visto molti film europei e ho notato che c’è una certa difficoltà a incontrare gli spettatori. Negli Stati Uniti c’è più dialogo, un rapporto più sano. In questo le nostre tv sono più capaci di rivolgersi agli spettatori.

L’Oscar le ha reso la vita più facile?
Vincere un Oscar ti apre certe porte ma non è una garanzia o un passe-par-tout.  

Zavattini diceva che gli sceneggiatori non devono smettere di prendere il tram.
Se smetti di avere una vita, è difficile poi comunicare con il pubblico. Se per una star che vuole fare shopping chiudono al traffico la Fifth Avenue, come potrà poi comprendere e interpretare il personaggio di una madre single? Io non prendo l’autobus, ma credo di avere una vita normale, ad esempio so quanto costa un litro di latte. 

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