Il sapore di un’infanzia perduta, quella in cui gli amici dei bambini erano i pupazzetti o i soldatini di plastica – piuttosto che le figure piatte e geometricamente perfette che si muovono sullo schermo della Playstation – una carica di umorismo surreale e un’anarchia visiva e narrativa che farebbe invidia a Michel Gondry e Wes Anderson. E’ un mix esplosivo quello di Panico al villaggio, il film che la coppia di registi Stéphane Aubier e Vincent Patar ha tratto da una serie tv di grande successo in Francia e che ha spopolato prima a Cannes (era tra le proiezioni di mezzanotte nel 2009), poi in patria (dove era candidato ai César) e poi addirittura a Hollywood, dove si è aggiudicato una candidatura all’Oscar. I due registi hanno preso i personaggi classici dei loro giochi da bambini e li hanno animati in stop-motion per creare un’avventura pazzesca che li porta dalla loro casa fino al centro della terra e poi al Polo. I protagonisti di questa girandola non-sense e dal sapore retro sono Cow-Boy e Indien (indiano) che, per fare contento il loro amico Cheval (Cavallo), decidono di regalargli un barbecue per il compleanno. Ma per sbaglio ordinano su internet un miliardo di mattoni e scatenano una serie di folli reazioni a catena che, oltre a investire l’intero villaggio, manderà a monte l’approccio romantico di Cheval con la puledra che ama, doppiata nella versione francese da Jeanne Balibar. Con decine di assurde ed esilaranti invenzioni visive, una semplicità disarmante e un ritmo frenetico, Panico al villaggio ha convinto anche la giuria del Future Film Festival di Bologna, che gli ha assegnato il Platinum Grand Prize, e il 25 giugno approderà nelle sale italiane con la neonata Nomad Film Distribution.
Aubier e Patar, complici della riscossa (insieme a Wes Anderson con Fantastic Mr Fox) del buon vecchio “passo-uno” nell’anno in cui il 3D invade le sale, hanno risposto in anteprima alle domande di CinecittàNews.
In quest’epoca in cui sta esplodendo il 3D, proponete un film realizzato in stop-motion. Potremmo considerarla una rivendicazione della creatività artigianale contro la freddezza della tecnologia?
Non siamo contro la tecnologia, anche se Panico al villaggio è effettivamente un film realizzato in stop-motion, in modo artigianale per tutti gli aspetti relativi al bricolage e all’animazione davanti alla macchina da presa. Lavoriamo in questo modo perché questa tecnica ci permette di improvvisare durante le riprese, ma anche perché ci piace manipolare gli oggetti. Attualmente molte cose vengono realizzate in stop-motion, che si tratti di lungometraggi o pubblicità; ciò permette di tornare a valorizzare degli oggetti reali davanti alla macchina da presa, e di usarli in modo diverso dalla loro funzione naturale.
Alla base del film c’è una serie televisiva di grande successo. Che scelte avete fatto per trasporla sul grande schermo?
Più andavamo avanti negli episodi della serie, più il suo universo si sviluppava e i suoi personaggi diventavano interessanti. Ci siamo detti che i nostri personaggi potevano vivere avventure più lunghe rispetto ai cinque minuti degli episodi, e abbiamo deciso di provare a raccontarne una.
Quanto tempo c’è voluto per realizzare il film? E con quali difficoltà?
Abbiamo costruito, nel corso di sei mesi, un centinaio di scenografie di interni e di esterni nella stessa scala dei personaggi e modellato 1.500 sculture di cowboy, indiani, vacche, cavalli ecc. in diverse posizioni. Ad esempio, per far camminare Cheval ci vogliono otto pupazzetti diversi. Le riprese sono durate sette mesi e mezzo, con quattro set in cui si girava contemporaneamente e quindi con quattro animatori. La post-produzione, quindi la registrazione delle voci, il montaggio di immagine e suono, i rumori, gli effetti speciali e il missaggio, è durata sei mesi. Ma la cosa più difficoltosa è stata la scrittura, che ci ha richiesto più tempo di quanto pensassimo, cioè tre anni. Ovviamente questo periodo di scrittura è stato intervallato da periodi di lavori su commissione, come videoclip e pubblicità, il che ci ha permesso di avere un certo distacco rispetto alla nostra storia. A livello di realizzazione, c’erano difficoltà ogni giorno, piccole e grandi, e bisognava trovare soluzioni rapide per andare avanti. Ma è qui che sta tutta la ricchezza di questa tecnica, visto che tutto è basato sul bricolage.
Vi rivolgete soprattutto ai bambini o anche agli adulti che sono rimasti bambini?
Sicuramente un po’ a tutti e due, ma anche a coloro che amano le situazioni assurde. E’ sempre difficile per noi rispondere a questo tipo di domande, perché quando abbiamo pensato a questo progetto non avevamo in mente un target preciso di pubblico. Ciò che ci interessava era riuscire a rendere bello, divertente e poetico un materiale povero come i cowboy e gli indiani di plastica.
Guardando il film si pensa all’ultimo lavoro di Wes Anderson, a Michel Gondry e a Jacques Tati, ma anche a un lavoro creativo completamente originale…
Assolutamente, sono tre autori di cui amiamo molto il lavoro. Jacques Tati per Jour de fête, Michel Gondry per le sue invenzioni visive e matematiche e Wes Anderson per gli sviluppi dei suoi universi un po’ folli. Ma quando lavoriamo noi non pensiamo direttamente a questi riferimenti, le varie influenze sono piuttosto a livello inconscio. Ciò che nutre davvero il nostro universo creativo è tutto ciò succede per strada, nella musica, nei fumetti e nella letteratura.
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