“Il neorealismo è una lezione del nostro cinema che va digerita”. Stefano Pasetto, autore di Tartarughe sul dorso – opera prima già in concorso alla scorsa edizione dei Venice Days, le giornate degli autori veneziane della 61a Mostra del cinema veneziana, e in uscita il 6 maggio prossimo grazie a Istituto Luce (http://www.luce.it/)– racconta il suo percorso professionale, da montatore a regista, e come è arrivato a realizzare la pellicola.
Protagonista una storia costruita su occasioni mancate, due individui, il francese a la nipote, che per 35 anni si incontrano perdendosi ogni volta fino alla perdita finale. Nel cast Fabrizio Rongione, già visto in Rosetta dei fratelli Dardenne e in Le parole di mio padre di Francesca Comencini, e Barbora Bobulova, attrice slovacca conosciuta e amata dalla maggior parte del pubblico italiano. “In Tartarughe sul dorso, vi sono colorazioni non passeggere di Europa”, racconta il regista. Un percorso che l’autore vuole segnato più da registi come Krzysztof Kieslowski che da connazionali noti.
Si sente nelle sue parole l’insofferenza verso la tradizione neorealista.
In realtà come ex allievo del Centro Sperimentale di Cinematografia, montaggio, per molto tempo mi è sembrato di non poter superare la soglia senza misurarmi con l’esperienza neorealista. Stranamente la Nouvelle Vague ha creato una forza dirompente straordinaria in molti paesi come la Germania e i Paesi del Nord mentre in Italia è passata quasi sotto silenzio a parte i lavori del primo Bertolucci o di Pasolini.
“Tartarughe sul dorso” è ambientato a Trieste.
Non è un caso. L’ambientazione non funzionava da semplice sfondo. Avevo bisogno della città di frontiera più a nord possibile, sul mare, ma che non fosse mediterranea. Genova è già una città mediterranea per esempio. Potrei trovare molto difficile ambientare una storia a Napoli, città apparentemente più vicina a quella dove sono nato e vivo, Roma.
Il dialogo è molto asciutto e il montaggio di questo arco temporale durante cui i due attori si incontrano serrato.
Sono partito dall’idea che quando si incontra qualcuno molto dell’incontro si gioca nella comunicazione. Si fanno spesso all’altro molte domande, si vuole sapere. Ma questo tipo di atteggiamento è frutto di insicurezze profonde. Ho tagliato molto i dialoghi, asciugando ancora di più al montaggio. Ho lasciato così volutamente degli spazi vuoti della storia così che restassero allo spettatore molte domande. Se vogliamo ha compiuto un atto di fiducia nei confronti del pubblico.
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