STEFANO MORDINI


“Era e si definiva un eclettosfaticato. È incredibile come tutte le persone che ho incontrato pensavano di essere state le migliori amiche di Andrea”. È Stefano Mordini che parla, l’autore di Paz ‘77 documentario su Bologna e su Pazienza, il genio del fumetto autore di capolavori come Pompeo. Mordini è autore anche di un secondo documentario, Arbitri, sempre al festival di Torino.

Da che cosa è nato il tuo interesse per Andrea Pazienza?
Sono nato nel ’68, appartengo a una generazione successiva a quella di Pazienza. Noi che siamo cresciuti negli anni ’80 ci siamo sempre autodefiniti senza ideali né stimoli. Da qui è nato il mio interesse verso il ’77 e verso Pazienza, sostanzialmente per capire da dove venivo. Trovare il materiale non è stato facile. L’unica persona tra quelle che ho intervistato che sia riuscita a fare una sintesi seria di quel periodo è Franco Berardi, Bifo. Ma in quegli anni sono successe tantissime cose che poi sono state dimenticate, concetti come il New Dada oggi nessuno sa più cosa fossero. E poi c’è stata la droga, che ha creato quel vuoto generazionale nel quale io sono cresciuto. Anche se dal mio lavoro su Pazienza ho, in un certo modo, escluso di puntare eccessivamente l’attenzione sulla droga. Non volevo raccontare Pazienza come se fosse solo una persona che “si faceva”. Pazienza era altro, e io ho voluto mostrare questo “altro”.

Su Pazienza l’interesse sta crescendo tantissimo in questo periodo: ad esempio sta per uscire Paz!, il film di Renato De Maria su di lui.
Non ho avuto rapporti con Renato De Maria, ma sono amico di Ivan Cotroneo che ha scritto la sceneggiatura. All’inizio non volevo fare un documentario su Pazienza: la mia prima ipotesi era quella di raccontare le sue immagini, anche se poteva sembrare un progetto troppo ambizioso. Poi, iniziando a fare le interviste, il mio interesse si è spostato.

Oltre a “Paz ‘77”, qui a Torino viene presentato un altro tuo lavoro, “Arbitri”
Il lavoro su Pazienza era indirizzato a un pubblico di nicchia, ma avevo voglia di affrontare un tema più popolare, il calcio. Da qui è nato Arbitri. Gli arbitri sono una realtà pazzesca. La domanda che mi sono posto è che cosa possa spingere un ragazzino di dieci anni a decidere di diventarlo. Pensavo che lo diventassero quelli che non sapevano giocare a pallone, ma non è vero. Sono 33 mila le persone iscritte alla categoria e di queste solo 35 riescono ad arrivare in serie A. In pratica ce la fa solo uno su mille. E per arrivarci devono fare 15 anni di gavetta, andando in località dove nessuno avrebbe voglia di andare anche se fosse pagato benissimo, e guadagnando solo 100 mila lire a partita. È una professione nella quale non esiste vincere o perdere, ci sono solo delle responsabilità. Mi interessa proprio questo: persone costrette a prendere decisioni e pagarne il prezzo. Se sbagliano, devono superare l’errore in campo.

Come mai hai scelto il documentario?
Penso che un regista debba alternarsi tra la fiction e documentari, anche perché i documentari ti aiutano a costruire drammaturgicamente i personaggi dei tuoi racconti. Non lavoro da solo, lavoro con un gruppo di persone, tra le quali ci sono Maria Martinelli e Bruno Bigoni. Con loro abbiamo deciso di fare una serie di ritratti e da questa idea è nato il documentario su Fabrizio De André presentato lo scorso anno sempre qui a Torino, così come quest’altro su Pazienza.

autore
18 Novembre 2001

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