“Sono stupito, non era certo nei miei programmi trovare la mia opera prima in concorso al festival di Berlino”. Stefano Mordini, 36enne, toscano di Marradi, il paese del poeta Dino Campana, è ancora sorpreso che il suo primo lungometraggio Provincia meccanica, con Stefano Accorsi, Valentina Cervi e Ivan Franek, partecipi alla corsa per l’Orso d’oro. Mordini insegna Scrittura per il cinema e la tv allo Iulm di Milano e ha una lunga esperienza di documentari: da quelli realizzati insieme a Maria Martinelli per la rivista ‘Internazionale’, come L’allievo modello, sulla crisi economica argentina, a Arbitri sulla vita di queste figure del mondo calcistico, a Paz ’77 sul disegnatore Andrea Pazienza e Bologna.
Provincia meccanica, in sala l’11 febbraio, è stato prodotto interamente da Medusa dopo che il film non ha ottenuto il finanziamento come opera prima dal ministero e dopo essere stato selezionato in un primo tempo tra i fondi di sviluppo dell’Istituto Luce.
Il film è ispirato a un fatto di cronaca?
No, semmai il film traccia storie di personaggi che ho raccolto dalla realtà. Ho sempre realizzato documentari, convinto di raccontare storie autentiche di persone all’interno di una realtà. Questa volta mi interessava raccontare 2 personaggi che affrontano la vita con semplicità, le loro dinamiche, i problemi della loro relazione, sullo sfondo della provincia. E’ una storia d’amore attraverso le fatiche di personaggi marginali, che non fanno notizia. Metto in scena due personaggi che si amano fortemente, e racconto quanto è difficile conservare questo amore.
Chi sono i protagonisti?
Marco è carrellista in una grande fabbrica, Silvia invece non lavora. Hanno 2 figli, Sonia di 7/8 e Devis di 4 anni, con la cui nascita s’apre il film. E’ una famiglia un po’ atipica, con un cane e un iguana, che si è costruita una realtà molto istintuale, quasi animale, che il mondo esterno non capisce e vuole rimettere a posto. E’ allora che gli equilibri di questi rapporti familiari che stavano in piedi grazie a meccanismi unici si rompono e i due personaggi si separano, per poi fare di tutto per rincontrarsi.
Una famiglia felice comunque?
Assolutamente, nonostante quel che si troveranno a vivere. Il film mostra come all’interno della felicità ci siano difficoltà precise nel rincorrerla. Ho messo la lente d’ingrandimento su questa famiglia della provincia. Una famiglia diversa da tutte le altre? Forse, ma è una realtà che esiste, vista da fuori non c’è nulla di straordinario, da dentro sì.
L’ambiente esterno cerca di normalizzare questa famiglia?
Di renderla uguale, finendo per separare Marco e Silvia. Loro con grande fatica e caparbietà riescono a rincontrarsi, a rimettere a posto la loro vita, che per quanto complicata e difficile, è vera, sincera. Tutto nasce dalla madre di Silvia che non è d’accordo con l’approccio alla vita della figlia, tanto da portarle via la bambina con l’aiuto dell’assistente sociale, perché Sonia non frequenta la scuola e pare non sufficientemente protetta. La capacità di Silvia di allevare i propri figli viene messa in discussione e l’affidamento di Sonia le crea una forte frustrazione, provocando eventi a catena.
Ha girato a Ravenna e dintorni.
Il film non è una storia ravennate, ma conosco bene questa città sul mare con grandi complessi industriali. Rappresenta bene un’idea di provincia, anche se non è del sud Italia dove le relazioni tra le persone sono del tutto diverse. E’ la provincia del Nord est.
Che cosa ha chiesto ad Accorsi e Cervi?
C’è stata una lunga preparazione, sono stati con me 3 settimane prima delle riprese, per preparare i personaggi del film. Ho voluto che rappresentassero la storia non come attori, ma come personaggi. Nelle 2 settimane a Roma abbiamo affrontato tutto quello dei personaggi che non c’è nel film, il prima e il dopo. La settimana a Ravenna ho mostrato loro i posti dove i personaggi si muovono, ho cominciato a lavorare nei luoghi. Ho chiesto di restituirmi non quello che davo loro, ma altro. Così all’inizio delle riprese la natura dei due personaggi era dentro di loro, non lavoravo più con gli attori.
Chi è il personaggio di Ivan Franek?
Dragan è un marinaio che lavora in una nave sotto sequestro. Marco stringe un’apparente e semplice amicizia con Dragan che poi influirà nelle relazioni tra lui e Silvia, creando un altro meccanismo di separazione, del tutto casuale. Un uomo solo, senza terra, luogo, famiglia, è l’antitesi di loro due che invece hanno casa e radici. Eppure c’è una curiosità reciproca, tra due mondi così diversi.
Quanto del suo passato da documentarista c’è nel suo esordio?
I documentari mi hanno dato la possibilità di lavorare dal punto di vista drammaturgico, anche se in un documentario le cose non avvengono prima ma durante. In fondo ho utilizzato la fiction per raccontare una storia che, se i due personaggi fossero stati veri, avrei raccontato come un documentario. I due generi s’incontrano anche stilisticamente, il livello narrativo del film è molto ellittico, focalizza gli eventi. Alla fine ho costruito un mondo e l’ho osservato come se facessi un documentario.
Come definisce il suo cinema?
Un cinema semplice, che dà poco spazio ai virtuosismi, a metà tra il direct cinema e il melò.
Valentina Cervi dice che il suo stile è come quello di Cassavetes e Loach.
Il film purtroppo non ha niente di questi due registi straordinari. Amo soprattutto il primo Loach, Ladybird, Ladybird, Piovono pietre, i documentari fatti per la tv e mai andati in onda perché censurati. Ai due protagonisti ho mostrato prima di girare i film di Cassavetes. Certo ho riflettuto sul suo stile di lavoro, sulle modalità di racconto, di approccio con gli attori. Da lì parte quel lavoro d’improvvisazione che ho chiesto agli interpreti, soprattutto per i tempi, per un modo di stare in scena, che non rispettasse i tempi della macchina da presa ma il loro modo di essere all’interno della storia.
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