Mentre parla si toglie e si mette il naso rosso dei clown. Stefano Gabrini ha piuttosto l’aspetto di un Auguste bianco ed etereo, quello che fa esplodere con la sua impassibilità la buffoneria del compagno pasticcione. Ma c’è poco da ridere in Jurij
, film che sfiora l’horror più di una volta, con quel potere assoluto dell’adulto, delle strutture sociali, dei doni divini nei confronti del bambino, violinista portato alla perfezione tecnica e all’autismo sentimentale. Per tornare al naso da clown, è uno dei ferri del mestiere del regista, clown per anni in Bosnia con i bambini di Mostar, ci giocherella come fosse una penna.
Jurij è stato appena presentato a New York e a San Francisco evento speciale del N.I.C.E. ed ha avuto uno spettatore d’eccezione, Lawrence Ferlinghetti che gli ha dedicato un disegno-poesia in cui Jurij dice: “Non sono cieco, Stefano Gabrini m’ha dato la visione”
“Appena arrivato a San Francisco, sono andato alla City Lights, la famosa libreria di Ferlinghetti che ora è diventata monumento nazionale, ma nell’ufficio al primo piano il poeta non c’era e gli ho lasciato un biglietto per invitarlo alla proiezione del film. E’ stata l’emozione più grande della mia vita trovarmelo seduto vicino il giorno della proiezione. Mi ha detto di essere rimasto entusiasta della poesia e della qualità pittorica del film perché non aveva mai visto il punto di vista di un bambino ipovedente”.
Come nascono le immagini intraviste dal bambino? Dato che hai uno stretto rapporto con la beat generation sei stato influenzato dall’underground americano?
Il progetto è frutto di un un lungo periodo di ricerca, almeno dieci anni. Dal ’95 al ’98 sono stato in Bosnia dove ho creato un laboratorio teatrale con il mio amico clown Musacchia che ora non c’è più. Con una camera analogica, non digitale, ho lavorato con bambini tra i due e i sei anni. La camera era un mezzo per comunicare. Da un punto di vista pittorico per il mio film mi sono ispirato piuttosto a Cézanne con il suo abbandono a qualsiasi tipo di impressionismo per arrivare a qualcosa di nuovo.
Il tuo film è ambientato in parte in Ungheria, ritroviamo nel tuo cast celebri attori del cinema ungherese (come Andràs Balint). Qual è stato il tuo rapporto con questo paese?
Ho ambientato il film in Ungheria per il loro rispetto musicale. Al conservatorio di Budapest un pubblico non certo di élite assiste a un cartellone fitto di concerti. E’ stata questa attenzione per la musica a convincermi. Inoltre ammiro moltissimo la cinematografia ungherese e soprattutto Marta Mezsaros. Penso che qualcosa dei suoi Diari, sia rimasto nel mio film, i suoi boschi, ad esempio.
E’ ungherese anche il tuo protagonista?
Sì, Rajmond Onodj è un giovanissimo talento dell’Accademia di Budapest. E’ la sua prima esperienza di fronte alla macchina da presa. L’educazione che sta ricevendo assomiglia in qualche modo a quella del film, è monotematica, è obbligato a diventare un grande violinista. Il ritmo della lavorazione del film gli ha permesso di variare un po’ il suo ritmo, di giocare molto. Avevamo un sistema di comunicazione che andava al di là della lingua.
Cosa ti ha trasmesso l’esperienza con i bambini bosniaci?
Dopo essere diventato vittima dell’ossessione televisiva, ho deciso di non rimanere sulla poltrona a guardare e sono partito. Era il ’95, in pieno assedio di Sarajevo. Nel mio bagaglio professionale ho cercato qualcosa che potesse essere utile e così ho cominciato nei centri di accoglienza in Romagna quindi a Mostar dove siamo riusciti, noi che lavoravamo nella zona multiculturale e il gruppo che lavorava tra gli integralisti cattolici croati, a portare i bambini su un unico palco e farli recitare insieme, a metà strada. Ci siamo riusciti, anche se poi i croati hanno minacciato di far saltare il palco se ci avessimo riprovato. Il film è frutto di una serie di eventi accaduti nel corso di dieci anni, tra cui questa non è certo secondaria”.
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