“Nel primo lockdown mi sono trovato a pensare che la pandemia fosse una linea di confine, come dopo la Guerra o le Torri Gemelli, un evento eccezionale: da Roma a New York eravamo tutti chiusi in casa, una storia universale, vissuta da ciascuno nel proprio intimo ma che si è condivisa con il mondo, il che mi sembra davvero un evento eccezionale. Dietro al film per me c’era probabilmente anche un motivo catartico: in quel momento ho provato a scrivere, varie cose, e questa storia si è dimostrata la più forte, una dark comedy, che ho temuto di non finire, ma alla fine, anche grazie a Carlo Degli Esposti, si sono sciolti tutti i nodi”, commenta Roan Johnson, autore di State a casa, prodotto da Palomar e Vision Distribution, che lo distribuisce in sala dal 1 luglio.
Johnson sceglie uno spazio claustrofobico, un appartamento e poco più, e un momento storico ancor più ingabbiante, la pandemia, espressione del virus sanitario, spunto per l’autore per raccontare il virus insito nell’animo dell’essere umano: “È un film che credo comporti una visione molto soggettiva: credo ci sia più di uno spartiacque, ma non sento registri differenti, l’inizio e la fine sì ma con una grande ‘dissolvenza incrociata’ nel mezzo che mantiene un paio di registri fissi, che si mescolano e convivono a lungo, con un finale molto cupo, una sorta di vaccino psicologico per non cadere nel buio della società. Naturalmente il virus di cui si parla non è il Covid ma il lato peggiore dell’essere umano. Il Covid è stato la scusa, non per fare il film ma per parlare dell’umanità: nel piccolo vitro che era la casa, l’idea è stata di dire: ‘ma se i nostri istinti peggiori prevalessero, dove andremmo a finire?’. Questo è il vaccino che vorrebbe portare il film”, continua il regista.
Roan Johnson ha girato nella fascia di tempo tra il primo e il secondo lockdown, nello scorso autunno, potendo anche dedicare un paio di settimane alle prove, “per una messa un scena quasi teatrale”, specifica lui stesso, che ha guidato in questo lavoro cinque interpreti, più un serpente, soggetto animale palesemente simbolico.
“La forza e la potenza di aver potuto provare prima è stato un privilegio, che sarebbe necessario per l’arte della recitazione: non avremmo mai trovato la semplicità del rapporto poi portata sul set. Il mio personaggio è stato difficilissimo da interpretare, anche perché Roan ha continuato ad aggiungere strati, ma con un ruolo non di spalla alle figure maschili. Ho fatto un lavoro sul corpo, cosa di cui stavo prendendo consapevolezza in quel momento: m’è servito tanto, soprattutto per un personaggio in cui spicca l’elemento della seduzione”, spiega Giordana Faggiano, interprete di Benedetta, la fidanzata di Paolo (Dario Aita), con cui convive nell’appartamento insieme ad altri due amici, Nicola e Sabra, ciascuno specifica espressione di una della sfaccettature della psicologica umana, come d’altronde Spatola, il padrone di casa, dirimpettaio dal viscido e sospettoso “fare”, miccia per il susseguirsi delle sequenze più scure e imprevedibili, scossa per tutte le psicologie in gioco, cui dà vita un eccellente Tommaso Ragno.
“Gran parte di questa partecipazione è legata al rapporto con i ragazzi, non conoscevo nemmeno uno di loro e mi hanno davvero accolto: è una cosa non scontata trovare immediatamente complicità, ma questo è dovuto ad una capacità di saper giocare insieme. Per esempio, per l’aneddoto con il serpente: ho avuto una crisi isterica nella scena in cui recito tenendolo in mano, naturalmente è simbolo archetipico e se non fosse stato per una mia totale vanità, e con il loro dileggio di supporto, non ce l’avrei fatta. Con Roan avevo già lavorato: lui ama gli attori, forse perché in qualche modo è lui stesso un attore. Il film è veramente un’esplosione di energia”, commenta l’attore.
Cui fa eco il collega Lorenzo Frediani (Nicola): “La cosa particolare è stata costruire i rapporti dei personaggi anche durante la preparazione: anche per esigenze sanitarie, siamo stati coinquilini qualche settimana prima del film, costruendo il film in casa e girando scene con il cellulare di Roan, e poi l’abbiamo rigirato sul set; i nostri rapporti sono così scivolati organicamente sulla scena”.
Un’armonia confermata anche da Dario Aita (Paolo): “Il piano sequenza – spesso scelto da Roan Johnson, ndr – è una dichiarazione d’amore del regista verso gli attori: per noi, tutti di formazione teatrale, è stato un incontro importante tra cinema e teatro. Nonostante il girare in poco tempo, abbiamo sempre avuto molta serenità di confronto”.
Martina Sammarco, infine, è Sabra, il profilo più enigmatico della casa, sintesi di contrasto, non a caso la proprietaria del serpente che viveva in una teca quando, all’inizio del film, striscia e si nasconde, s’intrufola, non si sa esattamente dove, proprio come un virus latente ma presente: “Forse il mio personaggio è il più sano del gruppo, o forse no? È stata la domanda fondamentale per la mia preparazione e ho capito che ‘stare nel mezzo’ fosse molto più interessante per me. Roan mi ha suggerito di pensarmi come una divinità: quando ho capito il suggerimento mi ha molto aiutata, così come la mia passione per le divinità greche, che stanno nel pantheon e osservano, altrettanto si divertono, così ho capito cosa lui intendesse nell’indicarmi di essere empatica ma distante; ho capito anche come la divinità non decida per l’uomo, ma apra delle porte, e in questa misura io sono stata specchio per gli altri inquilini e l’ambiguità m’è stata necessaria per avere uno sguardo distante che facesse domandare: ‘chissà cosa faranno?’. Il mio personaggio si mostra in una chiave magica, come un alieno ospitato nella casa”.
Il film esce in 150 copie, copre sia circuiti commerciali sia sale cittadine, per un posizionamento il più largo possibile: “Credo sia importante fare film che fissino dubbi e incertezze: mi piacerebbe che fra 10 anni, rivedendolo, si potesse tornare a porsi delle domande e a riflettere”, chiosa Nicola Serra di Palomar.
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