VENEZIA – Montagne petrose. Nebbia densa. E buio. Ariaferma dichiara la propria sospensione con una visione specifica, in cui soprattutto il buio resta dato costante per diffusa parte del film di Leonardo Di Costanzo, Fuori Concorso alla 78ma Mostra (dopo essere già stato a Venezia, sezione Orizzonti, con la sua opera prima, L’intervallo, nel 2012 – Premio Fipresci).
L’ottocentesco carcere di Mortana – che non esiste nella realtà, ma è un simbolo – sta per essere dismesso: le questioni burocratiche ministeriali ne posticipano l’epilogo così dodici detenuti e una manciata di agenti rimangono “imprigionati”, nell’attesa delle ultime prassi per lasciare per sempre quella roccaforte; tra loro, degli uni e degli altri, Gaetano Gargiulo (Toni Servillo), agente responsabile, l’ispettore Coletti (Fabrizio Ferracane) e il detenuto Lagioia (Silvio Orlando).
Ariaferma, come definito dal suo stesso autore, “non è un film sulle condizioni delle carceri italiane. È forse un film sull’assurdità del carcere”, luogo, quello dell’opera, di poche parole e molto ricorrente rumore metallico di chiavi e chiavistelli, cancelli e sportelli, suoni tutti che concorrono a riempire e definire la tensione della scena. “Ci sono suoni che definiscono lo spazio, portato tutto in un punto limite”, puntualizza Valia Santella, sceneggiatrice.
“È evidente che i fatti recenti nelle carceri mettano in risalto la necessità che se ne parli senza intervalli di silenzi, ma trovo che il film non si appiattisca sulla denuncia sociale, ma vada oltre: il film racconta oltre la cronaca, con la sua situazione simbolica”, riflette Toni Servillo.
“Perché no a un sano ritorno a un cinema civile? Che non scappa di fronte ad un tema, ma lo affronta di petto”, fa eco Silvio Orlando.
“È un mio modo di raccontare il mondo, lo spazio-tempo molto ristretto, senza picchi drammatici. M’interessa la quotidianità: è una fiducia nella possibilità delle cose straordinarie della vita reale. Io vengo dal documentario, che non ha problemi di credibilità: per il cinema di finzione, ho fiducia nella credibilità. Se si porta la narrazione su questo livello e ‘si dice’ allo spettatore di porre attenzione ai dettagli, è come prepararlo, nel primo quarto d’ora, così chi guarda è preparato sul livello d’attenzione su cui attestarsi”, spiega il regista.
Uno per uno, i detenuti – tra loro, gli attori Salvatore Striano, Pietro Giuliano, Nicola Sechi – sono disegnati ciascuno secondo un proprio profilo, dal compulsivo al bugiardo, e naturalmente non può mancare “uno furbo”, ovvero il personaggio cui dà vita Silvio Orlando, decano dietro le sbarre, colui che ha l’esperienza e il modus di trattare con gli agenti penitenziari, pennellando il volto e la recitazione ora con enigmatico filtro espressivo, ora con umana malinconia, forse ricerca di pietas. Lagioia è colui che innesca i processi che permettono un allentamento delle formalità di sicurezza, necessarie sì ma anche “gabbia” per le dinamiche umane, soprattutto nel cercare un rapporto con il personaggio di Toni Servillo, fedele al proprio mestiere ma non meno uomo pervaso dal senso dell’umanità e quindi meno rigoroso di quanto ufficialmente richiesto, sentimenti che vibrano tutti nello sguardo umido dell’attore: concede che Lagioia possa cucinare per tutti nella cucina ormai in disuso o che possa raccogliere verdure fresche, in quello che era l’orto curato dagli stessi carcerati, qui luogo in cui, sempre sotto l’occhio vigile quanto empatico di Gaetano Gargiulo, indirizza il discorso conducendolo a parlare dei propri padri, come “Oreste, il lattaio”, genitore della guardia, , spiraglio per una più specifica lettura della dinamiche umane.
Per esempio come “l’episodio del vino a tavola è un momento di grande imbarazzo, per cui ci siamo molto confrontati. È accaduto che, su scene importanti, ci fermassimo, riflettessimo e ci tornassimo sopra. Un momento delicato, quando il mio personaggio doveva sedersi a tavola (con i detenuti, ndr): avevo introiettato luogo, divisa, e quindi mi sono chiesto: ‘che faccio?’. A volte, però, basta un gesto a rompere un sistema granitico: il gesto è stato andare a prendere un piatto nella fila dei detenuti, sul crinale tra compassione e ruolo. Occorre un gesto d’amore a rompere uno scherma, a questo s’è giunti lavorandoci sopra, per non essere ideologici”, spiega l’interprete di Gaetano.
“C’è stato un lavoro sul corpo e sul gesto: avevo il problema di calibrare attori professionisti e non, quindi come fare a trovare un’armonia comune? Non ci dormivo la notte, perché la differenza si può sentire. C’era del rischio, ma in comune c’erano il volto e il corpo. Ferracane, per esempio, recita con la faccia. Si sono potute usare poche parole perché fossero i corpi a parlare. Poi, si è lavorato sulla costruzione e sulla coabitazione, creando uno spazio separato, che permettesse ai personaggi di liberarsi dai ruoli e arrivare così all’essere umano”, aggiunge Di Costanzo.
“Per ottenere il risultato bisogna rischiare e esiste ancora un pezzo di cinema che può permetterselo”, continua ancora Orlando. “Non è che i personaggi si spieghino, ma è il momento della maturità, così il mio personaggio è a suo modo carismatico. Con la mia personale attitudine bonaria, fino a qualche anno fa, avrei temuto il ruolo, ma poi col tempo s’arriva a recitare anche con il silenzio e le pause, un punto d’arrivo per un attore”.
Ed è proprio in questo luogo di “buio” che è il carcere che l’assenza improvvisa della luce – per la mancata corrente fatta saltare da un temporale – muta l’oscurità, che viene squarciata da una luminosità umana, mentre il buio allinea tutti come medesimi esseri umani.
Il film è prodotto da Tempesta con Rai Cinema e distribuito da Vision Distribution: l’uscita nelle sale a partire dal 14 ottobre 2021.
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