CANNES – E’ una scossa al cuore di rabbia e dolore il film italiano che apre la Semaine de la Critique di Cannes, Sicilian Ghost Story di Fabio Grassadonia e Antonio Piazza che tornano sulla Croisette dopo il loro esordio al lungometraggio con Salvo, presentato a Cannes nel 2013 e vincitore del Gran Prix e del Prix Révélation della Semaine. La pellicola, nelle sale da oggi con Bim, è una favola noir che racconta, sublimandola, una delle più efferate storie di mafia, il lungo rapimento nel 1996 di Giuseppe Di Matteo, tredicenne sequestrato e poi brutalmente ammazzato nel tentativo di far tacere suo padre, collaboratore di giustizia ed ex-mafioso. “Un episodio che chiude e sublima, nel suo orrore e nella sua disumanità, il periodo più buio della mafia siciliana” raccontano i registi, che da sempre hanno sentito la necessità di trasformare in qualcos’altro i sentimenti di angoscia e rabbia scaturiti dall’essere cresciuti e poi scappati da una Sicilia invischiata nella violenza criminale e nell’omertà. Il film, con la fotografia Luca Bigazzi, è ispirato al racconto Un cavaliere bianco di Marco Mancassola, edito da Giulio Einaudi nel volume Non saremo confusi per sempre. “Quando abbiamo letto il racconto abbiano capito l’intuizione profonda di Marco, che ha selezionato alcuni fatti della più orribile cronaca italiana, vicende senza possibilità di redenzione per nessuno, come quella di Giuseppe, e nel raccontarle è riuscito a far collidere il piano della realtà, senza tradirlo, con un piano di finzione che in qualche modo riesce a dare una redenzione alla vittima. A quel punto anche per noi è stata chiara la direzione che doveva prendere il film”.
In Sicilian Ghost Story quando Giuseppe scompare, Luna, una compagna di classe innamorata di lui, è l’unica persona che non si rassegna alla sua misteriosa sparizione e si ribella al clima di omertà e complicità che la circonda. Pur di ritrovarlo, discende, tra sogno e realtà, nel mondo oscuro che lo ha inghiottito ed è disposta ad andare verso l’autodistruzione per non tradire il proprio amore e la propria umanità. Il racconto ha i toni di un film di genere – una storia d’amore, un po’ favola nera e un po’ ghost story – e prende orgogliosamente le distanze dai racconti televisivi e cinematografici che mostrano in questi anni solo una Sicilia tutta mediterranea, “fatta di commissari che nuotano in mare e mangiano sarde” e in cui anche il racconto di mafia è diventato ripetitivo e prevedibile. “L’Italia tende ad abusare delle celebrazioni, anche nelle fiction, e rende le storie tutte uguali, annacquando in linguaggio pop anche la straordinarietà di alcuni racconti. Quello che era nel passato grande cinema d’impegno civile è diventato intrattenimento, una cosa che con il risveglio delle coscienze ha poco a che fare. La nostra missione è quella di scuotere, obbligare lo spettatore a subire un impatto emotivo. In questo senso l’uso del genere è stato una provocazione e insieme un atto politico, finalizzato a coinvolgere il pubblico in qualcosa di diverso”.
La protagonista del film, Luna, è una grande sognatrice, disegna di continuo e attraverso i suoi sogni ricrea la realtà. “Se sogni qualcosa vuol dire che può esistere”, dice in una battuta che restituisce la cifra del film, che sta proprio nella possibilità di redenzione offerta dalla dimensione immaginifica. E l’immaginazione resta l’unica condizione per vivere certe storie e salvarsi, perché, come scriveva Sciascia, “la Sicilia è tutta una dimensione fantastica da scoprire solo attraverso la fantasia”. A Luna è affidata l’unica possibilità di apertura alla vita, insieme alla consapevolezza, nata dal dolore, di una dimensione umana che occorre rispettare: “Il suo è un amore che vince, che non tradisce la propria umanità e i propri bisogni” sottolineano i registi. “Interpretare questo personaggio è stata un’esperienza che mi ha fatto guardare le cose in modo diverso”, ha raccontato Julia Jedlikowska, giovane palermitana al suo esordio sul grande schermo. “Non sapevo nulla della storia di Giuseppe, è qualcosa che oggi non viene raccontato, ci è tenuto nascosto”. E proprio strappare questo bambino al buio in cui è stato emarginato, anche quello della dimenticanza, è l’obiettivo dei registi: “Quando siamo andati nelle scuole siciliane per fare i casting abbiamo scoperto che nessuno oggi conosce questa storia. I luoghi del sequestro sono abbandonati, in molti ci sono ancora i sigilli. L’unico luogo in qualche modo aperto è il bunker dove è stato tenuto alla fine del sequestro e poi ucciso. Oggi è una sorta di giardino della memoria in cui, scandalosamente, a raccontare di quel bambino murato vivo per ben 779 giorni in uno spazio chiuso, c’è un’architettura claustrofobica fatta di cemento armato e spranghe di ferro. Un luogo senza strade d’accesso, il più delle volte chiuso ai visitatori. Lo era anche in occasione del ventennale della morte di Giuseppe”.
Gli adulti che si vedono nel film sono personaggi per lo più negativi, in un certo senso tutti carcerieri. Lo sono anche i genitori di Luna che vorrebbero costringerla, ‘per il suo bene’, a dimenticare. “Gli adulti vivono una dimensione schizofrenica, la stessa che abbiamo vissuto anche noi crescendo in quegli anni in Sicilia”, racconta Grassadonia. “Da bambino un giorno fui svegliato da un’autobomba, affacciandomi alla finestra sembrava di assistere a una scena di guerra. Eppure quel giorno con la mia famiglia dovevamo andare al mare in vacanza, e così abbiamo fatto. Ci insegnavano a far finta di nulla, perché era l’unico modo di salvarsi. La Sicilia oggi è cambiata, non c’è più quell’efferatezza. Ma la mafia non è stata ancora sconfitta e dobbiamo interrogarci sul futuro e sulle possibilità che stiamo offrendo ai nostri ragazzi”. Riguardo ai veri carcerieri, che quando sequestrano il bambino non hanno un piano di riserva e per questo lo uccidono, era per i registi essenziale trasparisse tutta la loro insensatezza, “perché è la stupidità la dimensione che si addice al racconto di mafia”.
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