Fa appello a un donna potente, Hillary Clinton, Shirin Neshat, la videoartista iraniana che ha esordito al cinema con Donne senza uomini, manifesto che si muove tra politica, arte e coscienza individuale. Shirin, dagli occhi resi ancor più magnetici dal kajal, chiede a gran voce la liberazione del collega Jafar Panahi: “So che il governo iraniano è capace delle peggiori atrocità nei confronti dei detenuti e che vuole mettere il bavaglio alla cultura. La comunità internazionale potrà aiutare Panahi e gli altri artisti detenuti spingendo i propri governi a intervenire sul nostro. Ahmadinejad non si interessa ai media, ma ascolta i leader occidentali: Berlusconi, Sarkozy o Hillary Clinton potrebbero fare molto a livello diplomatico”.
Vive in Occidente da quando aveva 17 anni e la sua opera vuol essere una sofisticata mescolanza di cultura persiana e occidentale. L’ha amata la giuria di Venezia 2009 che le ha tributato il Leone d’argento per l’opera prima ispirata a un romanzo della scrittrice dissidente ed esule Shahrnush Parsipur ambientato nell’Iran del ’53, in un momento turbolento della storia di quel paese – il colpo di Stato voluto dagli americani scalzò il presidente eletto Mossadegh – per raccontare i destini di quattro donne molto diverse che trovano tutte rifugio in un giardino magico, luogo di contemplazione e di libertà. Il film è in uscita con la BIM il 12 marzo, mentre il libro è tradotto in italiano da Tranchida.
Il romanzo di Shahrnush Parsipur si apre proprio con la descrizione di un giardino. Cosa rappresenta questo luogo per lei?
E’ uno spazio magico e simbolico, non ha una geografia concreta. E’ un luogo di trascendenza e di libertà. Sharnush aveva in mente anche la simbologia cristiana del giardino dell’Eden, per me c’è il concetto di un posto dove le donne possono trovare una seconda occasione e guarire.
Queste donne devono fuggire da situazioni di oppressione e di violenza, ieri come oggi.
Sì, ma non voglio mostrare le donne iraniane come vittime e perdenti. Come avete visto quest’estate le iraniane sono molto forti, non fanno compromessi, non hanno mai smesso di protestare e di essere contro. Per me sono fonte d’ispirazione e non solo perché sono femminista. Hanno volti bellissimi, che mi commuovono. Sono oppresse ma mai vittime.
Si ispira alla pittura europea oltre che all’arte islamica? Cerco di fondere arte visiva e cinema, fotografia e pittura. Uso molti luoghi della pittura orientale, come l’immagine di una donna che si lava, ma poi li contamino. Mi interessa l’intersezione tra violenza e bellezza.
In che modo?
Io vedo il mondo nella forma della dualità. Io stessa sono un essere vulnerabile e allo stesso tempo molto forte. Per me spiritualità e violenza, Est e Ovest, bello e orribile sono in contatto come mostro nella mia serie di ritratti “Women of Allah”.
Tra le sue fonti c’è anche il cinema?
Soprattutto Tarkovskij che ho sempre ammirato perché era poeta, narratore e filosofo e lo sento anche molto vicino perché viene da un regime politico in cui come artista soffriva tanto che ha dovuto partire e vivere in esilio. Amo anche Lars Von Trier, Kaurismaki, Antonioni e Bunuel. Il cinema per me è una grande scoperta. Vengo dal mondo artistico e all’inizio ero interessata a registi visivi, adesso comincio ad avvicinarmi ad autori come Ingmar Bergman, che cercano di andare dentro le persone. Consideravo il corpo umano come una statua, ma ho scoperto il tema dell’identità e dell’interiorità.
Che rapporto ha con l’Islam?
Prima della rivoluzione islamica l’Iran era un paese musulmano, ma l’Islam era stato adattato alla natura persiana, era un Islam più spirituale, legato al sufismo. Dopo la rivoluzione si è affermato un Islam ideologico e rigido, che va contro tutte le cose fantastiche della nostra cultura: musica, poesia, architettura, il senso della bellezza. Il sistema controlla la vita e le menti ed distruttivo, ha prodotto molto dolore.
E’ vero che sta lavorando a un nuovo film da un libro dello scrittore albanese dissidente Ismail Kadarè?
Siamo in trattative per il romanzo “The Palace of Dreams”, un libro fortemente allegorico. Mi sembra una buona sfida allontanarmi dalla cultura iraniana e non parlare solo di donne. Il libro parla di fanatismo, del potere che controlla le persone e persino i loro sogni, dunque il parallelo tra Iran e Albania c’è.
Cosa ha rappresentato per lei il Leone d’argento?
Non mi aspettavo affatto questo premio, che ha dato un messaggio importante a tutti quelli come me che vogliono sperimentare. Per me Donne senza uomini è un esperimento, un voler connettere Oriente e Occidente, realtà e magia, arte e cinema, politica e arte. Anche se il film non è perfetto, il premio dice che non bisogna aver paura di sbagliare perché il fallimento fa parte del processo creativo.
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