‘Shakespea Re di Napoli’, Preziosi: “L’attore napoletano diventa musa ispiratrice di Shakespeare”

Ruggero Cappuccio, autore del pluripremiato testo teatrale, e la regista Nadia Baldi dirigono il film: con Giovanni Esposito, Elio De Capitani, Jacopo Rampini. Preziosi si appresta a dirigere la sua seconda regia cinematografica: il documentario 'Aspettando Re Lear'


Per chi furono scritti i Sonetti che William Shakespeare dedicò a un misterioso signor W.H.? L’affascinante mistero della Storia della Letteratura vive nelle pagine, nelle sequenze – prima negli atti teatrali – di Shakespea Re di Napoli, di cui per il cinema è protagonista Alessandro Preziosi.  

Alessandro, nel film c’è il teatro elisabettiano e c’è la Napoli barocca: quali sono i sentimenti e gli slanci comuni che ha rintracciato?
Io credo che il mondo poetico, recitato, teatrale napoletano sia un mondo molto più sudato, molto più sporco, molto più sulfureo, ribolle, è impulsivo, è carnale, mentre quello inglese è molto più composto; l’impostazione del saltimbanco napoletano non fa differenza tra la strada e il palcoscenico, ma qui c’è per la prima volta l’adattamento del napoletano: per la prima volta vediamo come questo possa servire il teatro inglese e non viceversa; nella inverosimiglianza di questa storia è l’attore napoletano che diventa musa ispiratrice di Shakespeare, perché dentro di sé ha qualcosa di talmente indefinito che diventa pongo, un lievito, malleabile. Quindi, in questo caso, è più il verso shakespeariano, il mondo anglosassone, che vampirizza quello napoletano e non viceversa.

Siamo nei primi del ‘600, raccontati anche dai costumi di Carlo Poggioli: quanto l’epoca le è congeniale per interpretare un personaggio? Sembra sempre molto a suo agio ‘in costume’, che ovviamente non è solo un orpello estetico.
Dopo i primi film che ho fatto pensavo che il cinema sarebbe stato una prolunga del mio lavoro teatrale, poi però il teatro ha cominciato a essere quasi tutto beckettiano: cappotti, gilet neri, bombetta; ricordo il primo Amleto che feci, e subito dopo – in ambiti più o meno moderni – le tragedie siracusane, poi Elisa di Rivombrosa, poi Il furto della Gioconda, poi La masseria delle allodole: tutti film in costume, quindi per me il costume è una cosa attraverso la quale riesco a rendere significanti tutti i movimenti, che con il mio gesticolare diventano una sola cosa, diventano più controllati, non diventano più eleganti – che comunque dovrebbero sempre esserlo -, ma diventano partecipativi di un racconto, di una personalità, di una psicologia; non che nel cinema non sia così, ma si viene meno raccontati in questo modo.

L’interlocuzione e l’affetto tra Desiderio e Zoroastro danza tra poesia e comicità: con Cappuccio/Baldi, ma con Giovanni Esposito soprattutto, su cosa avete lavorato per ottenere il giusto mélange tra i due toni?
Lavorare con Giovanni Esposito è come lavorare con una tradizione di teatro, di esperienza, di tanti piani. Era difficile mantenere il controllo durante le riprese e a me, quando lo guardavo, veniva di fargli il verso, perché raccontava talmente una Napoli che c’è ancora, un po’ quella del femminiello, le mille voci, con questa espressività apparentemente protetta eppure dirompente. Si sono fatte tante, tante prove: l’obiettivo, che nasceva anche dalla fiducia che Cappuccio aveva riposto in Esposito e Preziosi, era quello di avere una chiara scansione di tutto questo napoletano antico, che una volta messo in bocca, ben amalgamato, usciva effettivamente come una musica, come una preghiera, come una canzone: la canti, la ricanti, la elabori. E poi, trovarsi con quegli abiti, ora nella Reggia di Portici, ora in mezzo al mare, non faceva differenza ma permetteva un ping pong continuo.

La storia prevede che ci siano due piani temporali per Desiderio, lui adolescente e lui adulto, ovvero lei: Emanuele Zappariello, invece, interpreta il personaggio nel primo periodo della vita. C’è stato un confronto, un allineamento tra voi due per cercare una continuità?
Sì, sì, ciascuno ha seguito i take dell’altro. Era importante avere piccole angolature di impostazione fisica. Poi, essendo ovviamente tutto affidato alla fantasia dello spettatore, l’idea era non tanto di giustificare una somiglianza a vent’anni di differenza, ma perché Shakespeare dovesse scegliere proprio quel tipo, e guardandolo, quando racconta: ‘venni a Napoli durante una notte di Carnevale…’ s’intuisce volesse cercare un soggetto che non fosse né uomo né donna, che fosse rosa chiusa e rosa aperta, che non fosse in Natura, e questo dà l’eccezionalità della magia di un racconto che poi si trova incarnato in una specie di figura quasi iconografica, perché l’immagine di Emanuele è l’immagine, chissà, che forse Shakespeare aveva realmente in mente; proviamo a immaginare che avesse trovato una Desdemona uomo, una Giulietta uomo, e infatti è stato molto divertente quando io sono dovuto diventare lui, con la parrucca bionda: sembravo veramente una comare!

Premesso che non tutti gli spettacoli che funzionano a teatro sia detto che trasposti al cinema possano avere la stessa efficacia, secondo lei, questo in particolare, che caratteristiche possiede nel testo natale che gli hanno permesso di vestire la forma del cinema?
Io ho visto lo spettacolo teatrale e me ne sono innamorato: tu guardi uno spettacolo, lo osservi, ti emozioni, piangi, ne esci, ne parli, ci ripensi, ti vai a rileggere il testo, e dopo tre anni ti trovi a interpretare quel ruolo: sono l’esempio lampante di come possa esaudirsi il mondo dei sogni.  Al di là della dimensione personale, l’adattamento teatrale è stato fortemente cinematografizzato, la lente si è allargata in maniera abbastanza consistente nell’ambientazione, nella bravura e nella fantasia dell’autore, che possedendo questo spettacolo fatto per venticinque anni, secondo me, quando lo scrisse aveva già in mente questo scenario – l’arrivo di una nave, il naufragio, il castello del vicerè, la notte di carnevale: vedendo lo spettacolo si sentiva la visione cinematografica, c’era questo buco nero che è la scatola teatrale, da cui tutti gli attori provengono sembra chissà da dove, mentre sono lì dietro in camerino o aspettando di entrare in scena, un mondo evocativo che penso potesse essere già nell’idea originale.

Con Shakespeare, Alessandro, non è la prima volta che s’incontra: con questo ennesimo incontro, c’è qualcosa che ha ulteriormente scoperto di lui o che lui ha dato a lei l’opportunità di scoprire come attore, come attore shakespeariano?
In questo caso, intanto, posso dire di aver conosciuto William Shakespeare! Ho scoperto che è possibile mutuare l’endecasillabo shakespeariano con la lingua napoletana; cioè che il verso shakespeariano possa essere una lingua di scambio, e che la distanza con la quale noi andiamo a trattare Shakespeare attraverso i suoi aforismi, i suoi Sonetti, è un’insicurezza, mentre il possesso della lingua permette di comunicare, nelle due ore di un film, attraverso un lungo flusso che alza il livello del linguaggio ma non lo rende inaccessibile; questo film mi ha fatto entrare nel mondo di Shakespeare non in punta di piedi, o facendo attenzione, perché avendolo tradotto in napoletano ti senti più confidente.

Al di là del il film, lei era proprio alla Festa del Cinema tre anni fa con La legge del terremoto (2020), la sua prima regia; su questa strada, dietro la macchina da presa, ci sono lavori in corso?
Sì, comincerò il 31 di ottobre le riprese di un documentario su Shakespeare, su un testo che è stato adattato da Re Lear che si chiama Aspettando Re Lear, che parla di una compagnia teatrale che si reca al Goldoni di Venezia e va a mettere in scena lo spettacolo: tutto quello che è la preparazione, la prova generale, con opere di Michelangelo Pistoletto in scena; tutto il mondo onirico di Venezia – le segrete, la Fondazione Cini, l’Arsenale diventa un palcoscenico che permette allo spettatore di entrare gradualmente nella storia. Quindi faccio un documentario sul testo del Re Lear.

E come mai ‘aspettando’ nel titolo, che evoca…
Godot? È l’attesa come segno di speranza. Tutte le tragedie shakespeariane hanno un epilogo estremamente apocalittico e definitivo, sia da un punto di vista morale che delle morti. Invece, il mio Aspettando Re Lear cerca di dare una chance a Re Lear, di diventare maturo prima di invecchiare, poiché il tema è che tu non puoi arrivare alla morte senza essere saggio, per cui Shakespeare gli fa fare un arco di follie, invece si sta a vedere se in questa attesa si riesca a preparare Re Lear a una corretta messa in scena dello spettacolo, tutto basato sul rapporto padre-figli – noi abbiamo adattato il testo non con 12 personaggi ma con 5 – mettendoli in relazione per poter aprire il sipario e dare a Lear di aver la possibilità, con gli strumenti avuti prima di entrare in scena, di vedere…

E poi, nella sua regia, torna anche l’arte contemporanea: ne La legge del terremoto c’era il Cretto di Burri, qui le opere di Pistoletto.
Sì, l’idea l’ho scoperta in un’opera di Pistoletto, Il labirinto, in una frase in cui lui dice: ‘alla fine di un labirinto c’è sempre una via d’uscita’, ecco il senso dell’attesa. Il documentario che avevo fatto cercava di capire come l’arte potesse sopperire alla mancanza di una struttura urbanistica devastata: cioè, può l’arte ricucire le coscienze? In questo caso, invece, l’arte che utilizzo è un mondo concettuale: può l’opera d’arte, di per sé museale, una volta visitata dagli attori, diventare mezzo di racconto? Sì. Pistoletto è stato un genio! Pensi che mi ha detto, quando gli ho chiesto se potessi utilizzare le sue opere: ‘fai finta che io sia morto, fai delle mie opere ciò che vuoi’.

Shakespea re di Napoli, dunque, è diventato un film in anteprima alla Festa del Cinema di Roma 2023: Ruggero Cappuccio, autore del pluripremiato testo teatrale (Premio Fondi e il Biglietto d’Oro Agis sezione qualità – Segnalazione Speciale per la Drammaturgia Europea del Piccolo Teatro di Milano), e la regista Nadia Baldi dirigono dietro la macchina da presa uno degli spettacoli più rappresentati sulle scene italiane e estere: era il luglio del ‘94 quando debuttò al Festival di Sant’Arcangelo diretto da Leo De Berardinis – a cui il film è dedicato, e senza sosta continua a tutt’oggi. Pubblicato poi da Einaudi nei Classici del Teatro nel 2002, con l’introduzione di Roberto De Simone, il racconto – sul filo dell’immaginazione, chissà? – di Shakespeare in visita a Napoli – nelle scene girate tra la stessa Portici e Palinuro – poeta in incognito per una notte, s’intreccia “con gli oggetti materici o ideali, reali o sognati, da cui nasce la storia narrata”.

Da parte di Cappuccio e Baldi, la scelta degli attori si è concentrata su interpreti che hanno frequentato Shakespeare tra palcoscenici e set, da Alessandro Preziosi appunto a Elio De Capitani (Viceré di Napoli), da Jacopo Rampini (Shakespeare) a Peppe Servillo (Don Gaetano) e Nando Paone (intendente).

Nicole Bianchi
24 Ottobre 2023

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