Shah Ruhk Khan: E adesso vorrei fare “La vita è bella”


E’ un divo planetario, un nome da 500 milioni di dollari, un vero re di Bollywood, Shah Ruhk Khan. Una specie di Tom Cruise d’Oriente che ha voluto mettere tutto questo debordante successo a servizio di una causa importante, quella del dialogo tra le razze e le confessioni nel suo nuovo film, a Roma come evento speciale, My Name is Khan, la storia di un uomo di origine indiana affetto dalla sindrome di Asperger, una forma di autismo che limita molto la capacità di contatto con gli altri. Un Forrest Gump, puro e inarrestabile, che riesce a costruirsi una vita felice solo per perdere tutto all’indomani dell’11 settembre. Ha sposato una divorziata con un figlio e il ragazzino finisce vittima del bullismo alimentato dall’odio contro gli islamici. E’ allora che Khan, abbandonato dalla moglie sconvolta dalla perdita del figlioletto, comincia a girare l’America sperando di incontrare il presidente degli Stati Uniti per dire una semplice frase “non sono un terrorista”. Ma la pellicola, che è già diventata il maggior successo indiano nel mondo, e che in Italia uscirà il 26 novembre con la Fox, parla anche della difficoltà di un matrimonio tra un musulmano e un’induista, un’esperienza che l’attore ha dovuto affrontare di persona: ci ha messo sette anni a convincere la famiglia hindù di sua moglie a lasciargliela sposare. Per festeggiare la premiere romana, cena indiana e red carpet coloratissimo con danze e canti, tra la folla inneggiante.

 

Non aveva paura di scontentare i suoi fans con un cambiamento così radicale di registro?

Sono vent’anni che faccio film e ho sempre recitato per me stesso. Stavolta ho cercato di fare una cosa diversa e vista la reazione del pubblico, devo dire che mi è andata bene. Ora sono di nuovo impegnato in un film d’azione, alla James Bond, ma penso che tornerò a raccontare storie impegnate.

 

Come si è avvicinato alla sindrome di Asperger?
In molti modi. A teatro avevo avuto a che fare con persone che hanno problemi di una certa gravità, tra cui alcuni  autistici. Poi ho letto un bel libro, “Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte”, che mi ha colpito molto. Poi ho visto alcuni documentari su queste persone che evitano il contatto visivo, ma sono molto intelligenti. Ho visto anche alcuni film come Rain Man e Risvegli, ma non volevo imitare nessuno. Mi sono documentato perché non si può scherzare su una condizione del genere.

Come spiega il grande successo del cinema di Bollywood nel mondo?

Noi in India non abbiamo rock star o divi del calcio, ma solo divi del cinema. Facciamo 1.000 film l’anno e non ci siamo piegati al cinema americano. Le nostre storie sono fantasiose, semplici, raccontate con molto colore, con balli, canti e musiche. Parliamo dei fatti della vita, del desiderio delle persone di essere felici. Si dice che il cinema indiano sia un cinema d’evasione, ma io credo che siano storie molto realistiche. Se avete visto Avatar, vi sarete resi conto che si parla anche lì di Krishna o dell’albero della conoscenza. Ma perché l’India non rimanga una semplice moda, bisogna cercare di allargare lo sguardo e anche noi dobbiamo cercare di fare film più universali.

Lei ha un successo incredibile che però la espone all’assedio costante degli ammiratori.

Ho lavorato tutta la vita per diventare una persona famosa, quindi non vado certo a mettermi gli occhiali scuri per non essere notato. Però sono un tipo riservato. In Italia mi conoscono poco, mentre in Inghilterra giro sempre con le guardie del corpo.

In che modo ha lavorato con il regista, Karan Johar?

Ci conosciamo da 15 anni, ma lui è abituato a fare film musicali e pieni di colori. Stavolta ho lavorato molto da solo, per tre mesi, mentre mi curavo una spalla rotta, facevo le prove davanti a una videocamera chiuso in bagno. In genere tendo a recitare sopra le righe e nessuno mi aveva mai visto così controllato.

Perché non è ancora andato a lavorare a Hollywood?

E’ difficile, a meno che non abbiano bisogno di un 45nne indiano di media statura, con i capelli tinti, non credo di poter dare un grosso contributo al cinema americano. Non sono sexy come Antonio Banderas, non ballo come John Travolta e così finora non ho avuto proposte. Invece mi piacerebbe interpretare un film tipo La vita è bella, un film che parla a tutti, senza bisogno di conoscere la lingua.

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31 Ottobre 2010

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