Un film a episodi horror per il maestro italiano degli effetti speciali. A 8 anni da M.D.C. La maschera di cera, Sergio Stivaletti riprova a mettersi dietro la macchina da presa con I tre volti del terrore, una valanga di citazioni che si rifanno a film inglese del ’64 Le cinque chiavi del terrore.
Stivaletti, dopo più di un secolo di cinema, cosa può dire il genere horror a un pubblico sempre più esperto ed esigente? Come si fa a mettere paura?
So bene che il gioco è sempre abbastanza scoperto. Ma secondo me il segreto per meglio approcciarsi a un film horror, sia che ci si metta dietro la macchina da presa o davanti al grande schermo, non è chiedergli di mettere paura a tutti i costi, ma di farci entrare in un’altra dimensione che attiri e tenga stretta la nostra curiosità. E’ come quando si entra nel tunnel del terrore al luna park: non è detto che una volta dentro si provi necessariamente orrore per quel che si vede.
M. Night Shyamalan, il regista de “Il sesto senso” e di “Signs” riesce a far paura non mostrando. Può essere la sottrazione la nuova frontiera del cinema horror?
Assolutamente sì. Ma non si tratta di una nuova frontiera. Questa regola è stata sempre applicata. Adesso molti registi di film del terrore applicano una sorta di codice che mette in equilibrio il vedere e il non vedere. Però credo sia lo squilibrio a creare il caso. Secondo me, il mio è un film squilibrato, personale. Lo so che molta gente penserà al solito tecnico che si è fatto venir voglia di mettersi dietro una macchina da presa e nessuno si chiederà se dentro di me è nato prima l’effettista e poi il regista.
Chi è nato prima?
Ho iniziato con la macchina da presa. Il mio primo lavoro è stato un documentario su una chiesa. Il lavoro agli effetti speciali è arrivato dopo. E’ una conseguenza e forse, in seguito, anche una causa. L’unica cosa certa è che le due nature non si annullano vicendevolmente.
Oltre alle tante citazioni che rendono omaggio al cinema e alla letteratura di fantascienza nel suo film ci sono due camei: quello di Claudio Simonetti e quello di Lamberto Bava.
Ho voluto fortemente queste presenze nel mio film. Tutto il mio film, nel suo insieme, è un gioco e il cameo serve a dichiararlo. La scena in cui compare Claudio Simonetti è girata nella villa del compositore, che ha scritto le musiche del mio film. E’ come se il regista uccidesse l’autore delle musiche. Lamberto Bava, invece, sta lì a rappresentare il padre Mario e tutta una stirpe di cineasti che hanno segnato il cinema italiano: siamo semplici imitatori e non saremo mai in grado di eguagliare il talento dei padri.
A Venezia è prevista una retrospettiva sui B movie italiani. Cosa pensa di questa rivalutazione del genere?
Quando il tempo addolcisce i toni tutto diventa più lecito. La cosa non mi piace granché, ma che devo fare? Solo sperare che un giorno qualcuno organizzi in una manifestazione importante come la Mostra di Venezia una retrospettiva dei miei film.
Nel finale del suo film, liberamente ispirato al finale di “2001: Odissea nello spazio”, un bambino alla sua scrivania, sospesa in cielo, disegna nuove storie del terrore.
Quel bambino è mio figlio. Ho sempre pensato che la nostra vita sia il gioco di qualcuno. Per me, quello che i filosofi chiamano “il primo motore immobile” è un bambino che gioca con le biglie e crea gli episodi delle nostre vite. Quel bambino rappresenta l’incognita positiva a cui dobbiamo andare incontro sia che si tratti di male, sia che si tratti di bene.
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