“Un luogo dove magicamente il desiderio si accende per conformarsi, subito dopo, al richiamo di una tradizione ancora viva”. E’ il Sud che Sergio Rubini, arrivato al 6° lungometraggio, mette in scena in L’anima gemella, l’unica pellicola italiana in corsa nella sezione Controrrente di Venezia 2002 a fianco di quelle di registi del calibro di Arturo Ripstein, Steven Soderbergh e Shinya Tsukamoto.
Una storia in cui, sotto un sole che trasfigura la realtà, si consuma il tormento di Teresa (Valentina Cervi), ragazza gelosa dell’amore e della bellezza della cugina Maddalena (Violante Placido). Per sottrarle il fidanzato (Michele Venitucci) Teresa ricorre persino alle arti magiche e solo l’intervento di Angelantonio, barbiere truffaldino interpretato dallo stesso Rubini, riesce a sciogliere la rete di intrighi.
Un cammino non facile quello del regista verso Venezia: fino all’ultimo ha rischiato di essere travolto, come Paolo Virzì, dal tracollo del produttore Cecchi Gori e dalle lunghe trattative con Medusa per sboccare le loro pellicole. “Quando due colossi si affrontano il pericolo è che a farne le spese siano i film – afferma – Se L’anima gemella va a Venezia è grazie agli sforzi di tutta la troupe che ringrazio”.
Ancora un film ambientato nel Sud. Che cosa cambia rispetto ai precedenti?
Questa volta non mi interessava offrire una ricostruzione antropologicamente fedele del Sud ma, piuttosto, mettere in scena le sue emozioni, quella passione che fa ribollire il sangue. Poi, rispetto agli altri miei film, L’anima gemella ha un sapore metafisico, arcaico, esoterico. Il punto di partenza è il sincretismo, tipico del Meridione, tra queste dimensioni e la contemporaneità della Play Station e del computer. E’ una storia che potrebbe esser stata scritta in un dopopranzo, in stato di ebbrezza. Un racconto alterato ai limiti del sogno, ma mai una favola perché la cultura meridionale ha più a che fare con il mito e la leggenda. Per metterlo in scena abbiamo scelto colori saturi e scenari mitologici, personaggi estremi, ma non grotteschi, in cui è vivo l’aspetto umano.
Quali suggestioni ti hanno aiutato a sviluppare l’idea?
Il Sud rappresenta le mie origini, ma l’idea della storia è venuta sfogliando una rivista in cui c’era l’immagine di una ragazza che danzava su un lago salato. Nelle sue forme sinuose e nella terra arida ho visto racchiusi questi aspetti del Meridione. C’è anche la fascinazione per i plot delle commedie di Shakespeare, quelle che si rifanno a La metamorfosi di Ovidio, per la cultura greca e la commedia latina.
Al centro della scena ci sono due archetipi femminili e un pizzico di magia.
In questo momento trovo più facile raccontare le donne. Sono un universo lontano che mi affascina e che ho approfondito con questo film. Gli archetipi sono la bella/buona e la brutta/cattiva che a un certo punto si scambiano di ruolo grazie all’espediente della magia. Il motore che fa muovere il film è il personaggio di Teresa: una donna la cui bruttezza non è oggettiva ma frutto del suo senso di inadeguatezza. Si sente vittima della perfidia della natura e diventa terribilmente cattiva. Il cuore del film sta proprio qui: nella vacuità delle apparenze perché noi non siamo altro che un riflesso della nostra anima, vero perimetro dell’identità.
Teresa è interpretata da Valentina Cervi. Come l’hai aiutata a calarsi nel personaggio?
L’obiettivo è che lo spettatore si riconosca nel dramma della ragazza perché in ognuno di noi c’è una Teresa, una sorta di ombra oscura che non ci permette di accettarci. Valentina ha espresso questa parte di sé, grazie a un lavoro maieutico.
Come hai vissuto la crisi di Cecchi Gori e l’incertezza pre-Venezia?
Sono state giornate turbolente. La gente del cinema, a differenza dei tifosi della Fiorentina, ha sempre accordato fiducia a Cecchi Gori. Mi auguro che esca dalla crisi perché il cinema italiano ha bisogno di un produttore come lui.
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