Una commedia grottesca dai risvolti noir, nella quale la tragedia è a un passo, ma alla fine il lato ironico della vita prende spesso il sopravvento. Con La terra Sergio Rubini, alla sua ottava prova, riprende il viaggio a tappe nella sua Puglia, tra passato e presente, tra tradizione e modernità. Rubini ci tiene a sottolineare che La terra è in fondo un thriller psicologico, un film giallo nella sua accezione più semplice, di genere. Con l’enigma da sciogliere e con il protagonista Luigi/Bentivoglio che fa i conti con il suo passato e con una giustizia ambigua, che prevede non la legge dello Stato ma quella primitiva della tribù.
Luigi professore di filosofia a Milano, dove è emigrato adolescente, si ritrova suo malgrado in Puglia invischiato nel conflitto familiare dei suoi tre fratelli: Michele, Mario e Aldo. Il film, ben recitato da Fabrizio Bentivoglio, Paolo, Briguglia, Massimo Venturiello, Emilio Solfrizzi, Claudia Gerini e dallo stesso Rubini, esce il 24 febbraio in 170 copie distribuito da Medusa. Produce la Fandango di Domenico Procacci, barese come Rubini.
Come nasce la storia?
E’ un progetto nato più di 12 anni fa, solo che il finale era un altro che andava bene per quel periodo: i fratelli si riprendevano la terra e il protagonista/Luigi non tornava a Milano, la città nella quale era scappato giovanissimo e rimaneva lì nel piccolo paese pugliese. Comunque non mi interessa esprimere un’opinione su quel che è diventata la Puglia oggi dopo averla lasciata a diciotto anni. Essa rappresenta per me solo un luogo della memoria.
Il film ruota intorno alla contrastata vendita della vecchia masseria, eredità di un padre autoritario.
La mia idea è che “la roba” divida. La proprietà è un ostacolo per questi fratelli, una ferita perennemente aperta. Sbarazzarsene vuol dire che la loro affettività torna finalmente a fluire. In fondo il padre ha lasciato ai figli un bene indivisibile che li costringe a confrontarsi, a parlarsi. Solo abbandonando questa terra al suo destino, il nucleo familiare ritrova un’armonia. Gli effetti devastanti della proprietà sono davanti ai nostri occhi, sappiamo quanto essa contamini e frantumi i rapporti personali e umani.
Luigi, il professore, si trova costretto a vestire i panni un tempo odiati di capofamiglia.
C’è un momento della tua vita in cui non sei più figlio e la tua famiglia ti si avvicina aggressiva e ti reclama per risolvere una situazione. Vorresti non occuparti dei tuoi cari e preferiresti scappare, ma non puoi. Non lo fai per vincoli di sangue e di memoria. Non puoi affrancarti dal luogo d’origine, pena l’appartenenza al nulla.
Non le sembrano un po’ depressi questi personaggi?
Al contrario li sento attivi, vitali. Certo dentro di loro portano quell’eredità greca del tragico che è parte di tutti i popoli del Sud, ma anche il desiderio forte di vita. Sono più depressi certi salotti della borghesia.
Come ha scelto gli attori?
Già dal progetto iniziale pensavo a Bentivoglio protagonista, è nato insieme alla sceneggiatura. Gli altri interpreti li ho selezionati con cura, sono molto scrupoloso, faccio prove lunghe, considero la recitazione un elemento fondamentale. E poi Procacci è un produttore attentissimo al fatto creativo. E’ stato lui a suggerire che fossi io a interpretare il personaggio simbolo della malvagità, l’usuraio/Tonino, nonostante il rischio di avere, con il mio fisico mingherlino, comunque un’aria simpatica.
Perché ha evitato la musica etnica?
Luigi/Bentivoglio arriva in questo paesino pugliese e non capisce nulla, si trova coinvolto in dinamiche segrete, morbose. La musica di Pino Donaggio aiuta a raccontare questa dinamica vischiosa, febbrile e inquietante, fuggendo qualsiasi riferimento all’arcaicità. Perciò ho scelto un compositore di musiche per thriller.
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