Saverio Costanzo: Lo spazio come prigione. Da Bunuel a “Private”


TORINO – “Ho visto L’angelo sterminatore quando avevo 24 anni e avevo già iniziato a lavorare al mio documentario Sala rossa, che ho girato in un ospedale romano e che poi vinse un premio proprio a Torino nel 2002″. E così Saverio Costanzo torna a distanza di 8 anni “sul luogo del delitto”, ma stavolta in veste di protagonista di uno degli incontri “Figli e amanti” della kermesse torinese, in cui mostra il “film della sua vita” L’angelo sterminatore per poi sviscerarne insieme al pubblico i motivi di fascinazione. Lo fa nella giornata più cupa del festival, avvolto dal grandissimo lutto che ha colpito il mondo del cinema. E naturalmente, anche lui, offre un suo ricordo del maestro Monicelli.

 

Che effetto le ha fatto la scomparsa di Mario Monicelli e il modo in cui è avvenuta?

Io ho lavorato con suo fratello Furio per il mio secondo film In memoria di me, che ho tratto dal suo libro “Il gesuita perfetto”, mentre di Mario non ho grandi ricordi personali, se non un incontro a piazza Farnese proprio in quel periodo. Gli dissi chi ero e che volevo fare un film dal libro di suo fratello. Mi rispose “Secondo me sei pazzo”. La sua scomparsa mi ha colpito molto, tra l’altro anche il padre si uccise e Furio mi parlò lungamente della vicenda. Il modo in cui è morto mi sembra coerente col personaggio, ci vuole coraggio e lui ne aveva. Era un uomo davvero coraggioso.

 

Come mai ha scelto proprio L’angelo sterminatore?

Perché parla della violenza forzata con il gusto dell’assurdo, un tema presente anche nel primo film Private, che infatti ne è stato ispirato. Il film di Bunuel è il primo film grazie al quale ho capito delle cose di me e del gusto del cinema che volevo fare, quello in cui non devi dare delle risposte ma porre delle domande. Il mistero dell’immagine nel cinema sta nelle risposte non date.

 

In effetti nel film di Bunuel ci sono molti elementi che si ritrovano nel suo cinema.

Sì, come l’attenzione ai riti, alle ripetizioni, l’idea dello spazio vissuto come prigione, l’incapacità di varcare la soglia, che appunto è anche nel mio documentario Sala rossa, ambientato in un reparto di terapia intensiva. Questi elementi ci sono anche in Caffè milleluci, girato in un bar italiano di New York. Anche lì c’era una porta che determinava un confine, c’era un’area di mistero.

 

Sono temi anche molto attuali.

Decisamente, perché è sempre più vero che si ha paura ad uscire, soprattutto dalle proprie certezze. Oggi si vive la libertà come un peso insostenibile, e questo accade anche nel mio secondo film, In memoria di me.

 

Quali sono altri registi che l’hanno influenzata?

Il primo vero innamoramento cinematografico l’ho avuto per Frederick Wiseman e il suo documentario fiume Near Death, un’opera di cinque ore girata nella terapia intensiva del Beth Israel Hospital di New York. Mentre un film italiano che ha cambiato la mia percezione del cinema, e che mi spaventò letteralmente fu Amore tossico di Claudio Caligari.

 

E’ soddisfatto del percorso fatto da La solitudine dei numeri primi?

E’ stata un’esperienza molto importante per me, è stato difficile affrontare un romanzo così popolare. Mi sento ancora in discussione rispetto a quel film, che comunque sto continuando a portare in giro. Domani sarò in Olanda per l’uscita lì.

 

Sta già pensando a un nuovo film? 

Ancora no, non sto lavorando a nulla e credo che ci vorrà qualche anno. Io ci metto sempre parecchio tempo a far nascere i film.

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30 Novembre 2010

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