VENEZIA – “Questo non è Il Gattopardo, è un film e basta”. Saverio Costanzo appare un po’ teso all’incontro con i giornalisti a Venezia. Ultimo dei quattro italiani in competizione, è reduce da una settimana in cui l’ansia è cresciuta di giorno in giorno, alimentata dai titoli dei giornali, attesa, grande attesa, trepidante attesa. Poi c’è stata l’accoglienza fredda alle proiezioni del mattino. Insomma, La solitudine dei numeri primi arriva al giudizio degli spettatori (da domani in 380 copie con Medusa) carico del peso di un best seller che in Italia quasi tutti hanno letto, vincitore dei premi letterari più importanti, dallo Strega al Campiello Opera Prima, un romanzo tradotto in più di 40 lingue. Per Costanzo, già autore di Private e In memoria di me, è stato quasi un film su commissione, perché il suo produttore, Mario Gianani, aveva comprato i diritti del libro e ha convinto poi il regista a tradurlo in immagini, vincendo una certa ritrosia. Ne è uscito un film quasi horror, dove i due protagonisti Alice e Mattia, i due numeri primi gemelli, destinati a non toccarsi mai completamente, sembrano quasi due zombie e sono narrati attraverso la trasformazione fisica subita dai due interpreti: Alba Rohrwacher perde 10 chili, Luca Marinelli ne acquista 15. “Un lavoro drastico sul corpo – dice la giovane attrice – che ha creato tra noi due un rapporto forte e credibile”. Paolo Giordano, che ha partecipato alla scrittura della sceneggiatura, si è per la prima volta commoso dopo tanto tempo trascorso in compagnia dei suoi personaggi: “Del libro mi hanno sempre detto che era molto cinematografico, invece io non raccontavo mai gli episodi fino in fondo, mi muovevo per sottrazione di immagini. Comunque ho lasciato che fosse Saverio a stabilire in che direzione andare”.
Costanzo, come ha fatto Gianani a convincerla a dirigere il film?
Quando mi aveva fatto leggere il romanzo, non ero sintonizzato sull’idea di una storia d’amore. Poi ho visto il libro che cresceva commercialmente e siccome penso che il cinema abbia bisogno di segni popolari per essere visibile mi sono proposto come sceneggiatore per poi passare anche alla regia.
Cosa l’ha attratta in questa vicenda di incomunicabilità e difficoltà di crescere?
Le prime due immagini del libro – la caduta di Alice sugli sci e l’abbandono della sorellina Michela nel parco da parte di Mattia – sono come archetipi del dolore originario, quelle ferite da cui cerchiamo di emanciparci, spesso senza riuscirci. Ho cercato di costruire una piccola epica del corpo, la storia dello stravolgimento di questi due corpi in un decennio, un tema molto politico e molto attuale, a giudicare dai film di questa Mostra. Per la storia d’amore, che poco mi appartiene, ho cercato di superare i miei limiti, di sfidarmi, altrimenti mi annoio.
Ci spiega la scelta delle musiche, così martellanti e invadenti?
Il film è incastonato in tre date ben precise, il 1984, il ’91 e il 2001. La musica consente dunque di storicizzare. Chi nell’84 aveva sette, otto anni, ricorda la tv, la techno, cartoni animati, gli applausi, il compiacimento. Ma tutto questo rumore, mi serve a giustificare il silenzio degli ultimi venti minuti del film, la parte a cui tengo di più.
Nel film c’è una forte cifra horror, a partire dalla prima scena, quella della recita scolastica, e poi anche dopo, con l’autolesionismo dei due personaggi, le cicatrici di Mattia e l’anoressia di Alice.
Nel romanzo c’è molto dolore, ma il dolore è quasi irrappresentabile, per me, senza l’ironia dell’horror che lo rende accettabile allo spettatore. Ho usato citazioni musicali horror, come i Globlin e la colonna sonora di Morricone per L’uccello dalle piume di cristallo.
Perché ha scelto una narrazione non cronologica?
Per creare uno spaesamento nello spettatore. La storia è già conosciuta, quindi non c’è bisogno di chiedersi “cosa accade” ma “perché accade”. E poi il cinema deve spaventare, deve creare sconcerto.
Ci sono varie citazioni, da Dario Argento a Kubrick…
C’è Monica Vitti che tiene la mano sulla testa di Gabriele Ferzetti nel finale de L’avventura. C’è Carpenter, Dario Argento, l’horror anni ’80, la fantascienza anni ’70. Muller lo considera un thriller soprannaturale, qualcun altro lo ha definito un horror dei sentimenti.
C’è stata qualche difficoltà insormontabile nella scrittura?
La matematica: non riuscivo a tradurre in immagini la genialità di Mattia, e allora l’ho reso solo molto intelligente.
Con MaXXXine, in sala con Lucky Red, Ti West conclude la trilogia iniziata con X: A Sexy Horror Story e proseguita con Pearl, confermandosi una delle voci più originali del cinema di genere dell’era Covid e post-Covid
Dove nessuno guarda. Il caso Elisa Claps - La serie ripercorre in 4 episodi una delle più incredibili storie di cronaca italiane: il 13 e 14 novembre su Sky TG24, Sky Crime e Sky Documentaries.
Codice Carla mostra come Carla Fracci (1936-2021) fosse molto più di una ballerina famosa.
Il disegnatore, illustratore e docente presso la Scuola Romana dei Fumetti ci racconta come ha lavorato sugli storyboard dell'ultimo successo di Gabriele Mainetti