“Mentre giravo, ho ricordato all’improvviso quel che una volta il regista Lars von Trier disse: ‘Ci vuole molto, molto bene per fare un po’ di bene. Ci vuole pochissimo male per fare tanto, tanto male’. Forse anche per questa ragione ho cambiato, in corso d’opera il finale della mio primo lungometraggio”. Il giovane Saverio Costanzo, figlio del noto personaggio televisivo, apprendistato da documentarista, così presenta Private il suo fortunato esordio nel lungometraggio. In Concorso a Locarno, “un festival perfetto che cerca nuovi linguaggi”, il film ha vinto il Pardo D’Oro e l’attore palestinese Mohammad Bakri ha ottenuto il riconoscimento come migliore attore. Private, coprodotto da Istituto Luce, Rai Cinema e Cydonia, si misura in modo originale con il conflitto israelo-palestinese. La casa di Mohammed e della sua famiglia è a metà strada tra il villaggio palestinese e l’insediamento israeliano, una posizione strategica per l’esercito israeliano che l’occupa. Costanzo racconta questa simbolica e drammatica convivenza tra nemici, con una macchina a mano invasiva che pedina senza tregua i personaggi.
Come nasce il film?
Nell’inverno 2002 grazie a un’amica giornalista corrispondente ho conosciuto a Gaza una famiglia palestinese. Un piano della loro casa era occupato da soldati israeliani, mentre loro erano costretti a dormire al piano terra, nel tipico salotto arabo. Lo chiamavano con sarcasmo “la prigione”. Nei territori occupati tante sono le storie come queste, l’atipicità sta nel pensiero di quel capofamiglia palestinese. Un preside di scuola media e professore d’inglese che convince miracolosamente tutta la sua famiglia a mettere da parte l’odio nei confronti degli occupanti della casa. Una sorta di resistenza pacifica, di pensiero gandhiano trasmesso anche ai figli, come risposta al sopruso patito: “Puoi fare tutto quello che vuoi del mio corpo, ma nulla con la mia anima, con il mio pensiero di pace”.
Dopo alcuni documentari debutti con un film di finzione.
Volevo fare un documentario d’osservazione ma a Gaza era pericoloso. Con il produttore Mario Gianani è nata l’idea di un film che raccontasse le diverse psicologie dei protagonisti di questa storia, il loro percorso verso una condizione di serenità interiore. Ho spogliato i personaggi dell’identità più visibile, documentaristica per arrivare alle psicologie umane.
Un film che ha forse parentele con “No Man’s Land” di Tanovic?
La montatrice è la stessa, Francesca Calvelli. E poi c’è quel ‘terzismo’ d’approccio, nel senso che il mio film non accontenta nessuna delle due parti, così come Tanovic venne criticato allora sia dai serbi che dai bosniaci. Per chi si aspetta una mia presa di posizione, il risultato politico sarà deludente. Certo non dimentico che Israele occupa la terra palestinese e tuttavia i palestinesi non sono un popolo senza macchia, se penso ai recenti attentati terroristici. L’obiettivo è stato quello di provocare uno psicodramma, che gli attori palestinesi e israeliani vivessero e mettessero in scena il proprio trauma di occupati e occupanti. Ho lasciato scorrere il flusso di emozioni per moltissimi ciak, perché le emozioni più profonde uscissero dalla loro recitazione. Mentre giravamo abbiamo riscritto alcune scene, le incomprensioni umane degli attori erano infatti più forti e affascinanti della finzione.
Come ha scelto il cast?
Il protagonista principale è Mohammed Bakri attore e regista palestinese il cui documentario Jenin Jenin in Israele non può essere proiettato. Nei panni dei soldati ho voluto a tutti i costi attori israeliani che hanno vissuto nella realtà la condizione di soldati occupanti. In particolare ho scelto provocatoriamente Lior Miller, icona della televisione israeliana, interprete di tante fiction, beniamino di quella parte di israeliani indifferenti al conflitto. E poi Tomer Russo attore di film di Amos Gitai,
Il film è stato realizzato a Riace in provincia di Reggio Calabria.
Se avessi girato a Gaza sarei stato sedotto dal folklore, da tutto quello che rappresenta l’identità culturale. Invece l’intero film si svolge tutto dentro una casa, un’unica location che ti costringe ad andare in profondità, ti dà un ordine.
Che musica ha scelto?
Alla etnica ho preferito quella elettronica dell’ensemble romano Alter ego. E poi c’è una canzone del musicista inglese Roger Waters, ‘Perfect sense’, scritta appositamente che racconta la ciclicità e la circolarità della violenza.
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