Esca in sala giovedì 3 novembre con Double Line Santa Lucia di Marco Chiappetta, produzione produzione Teatri Uniti in associazione con Riverstudio e Audioimage, con Renato Carpentieri e Andrea Renzi nel cast.
E’ la storia di uno scrittore cieco che dopo quaranta anni di esilio in Argentina, torna a Napoli per la morte della madre e intraprende col fratello musicista un viaggio della memoria nei luoghi della sua giovinezza che non può più vedere, alla ricerca del vero motivo del suo addio.
“Vedi Napoli e poi muori”, si dice, ma cosa succede quando non la si può vedere più?
“Quando ho lasciato Napoli all’età di 20 anni per vivere a Parigi – dice il regista – la mia città mi mancava così tanto che quando camminavo per il lungosenna chiudevo gli occhi e sognavo di essere lì: il fiume era il mare, l’odore era quell’odore, incontravo sulla strada i fantasmi del mio passato, rivivevo nella mente scene della mia vita, e sentivo davvero di essere di nuovo a Napoli, e tutto era possibile nell’oscurità. Così iniziai a chiedermi: cosa succederebbe se un uomo tornasse dopo un lungo esilio nella sua città natia, nei luoghi della sua vita, e non potesse più vederli? Come potrebbe un cieco distinguere la realtà dal sogno e dai ricordi? L’idea del film è raccontare il viaggio nel passato di un uomo senza futuro, il punto di vista di un cieco che non può più vedere ma solo sentire con gli altri sensi, immaginare, ricordare. Una cecità più metaforica e poetica, che fisica. La città che Roberto attraversa insieme al fratello Lorenzo è una Napoli inedita e senza tempo, cupa, spettrale, abbandonata e minacciosa, come un enorme, silenzioso cimitero, popolata solo da fantasmi e visioni di un passato lontano, insieme meraviglioso e terribile. Roberto passa da un ricordo all’altro, da un luogo dell’anima all’altro, come in un labirinto, ricucendo il mosaico della sua vita alla ricerca del pezzo mancante. Questo viaggio nella memoria è raccontato mescolando passato e presente in un vertiginoso flusso di coscienza, una sola unità di azione, spazio e tempo, come se questi eventi avvenissero per la prima volta davanti agli occhi ormai spenti di Roberto, testimone della sua stessa vita, che vede senza vedere”.
Da Nuovo Cinema Paradiso a Profumo di donna a molti film di genere, come Furia Cieca con Rutger Hauer o il Daredevil della Marvel, esiste un “cinema della cecità”, che mette sempre il regista di fronte a una sfida, essendo il cinema un’arte dove la parte visiva ricopre sempre un ruolo importante, sebbene possa contare anche sull’audio, al contrario, ad esempio, della pittura e della fotografia: “A me interessava raccontare la storia dal punto di vista di un non vedente – dice ancora Chiappetta – ma non volevo usare effetti già visti, come la fotografia sfocata, anche perché non rendono. Un cieco non vede nulla. Però immagina, e sogna. Quindi visivamente mi dovevo muovere tra il realismo magico e le atmosfere oniriche. Abbiamo scelto propriamente di significare la realtà attraverso gli altri sensi. Il tatto e soprattutto l’udito, che però rende il sonoro di una città sospesa, dove predominano anche i silenzi. Mi ha molto ispirato la lettura di alcune poesie di Borges, anch’egli non vedente, che raccontava in modo analogo la sua Buenos Aires”.
A livello di fruizione, oggi il tema è molto importante, dato che esistono sistemi per proporre un film anche a un non vedente rendendoglielo comprensibile, come l’audio descrizione: “come tutti i film – riflette ancora l’autore – è molto visivo, naturalmente ci abbiamo riflettuto, col distributore. Penso che, nel caso, questa pellicola possa trarre vantaggio proprio da come abbiamo lavorato sul sonoro a livello di missaggio, oltre che, naturalmente, sui dialoghi”.
Altre caratteristiche del film sono l’impostazione teatrale degli interpreti e l’essere stato girato in piena pandemia: “Carpentieri – chiude Chiappetta – mi ha permesso proprio di trovare il realismo che cercavo. Lo stop imposto dal lockdown mi ha dato tempo di riflettere sul personaggio. Sul set Renato era molto collaborativo, mi ha dato molto della sua esperienza di vita e maturità, ha contribuito a definire dialoghi e sfumature. Da questo punto di vista sia Renato che Andrea Renzi sono stati veri collaboratori della costruzione dei personaggi. Hanno dato qualcosa di molto personale. In particolare abbiamo adattato alcune parti di sceneggiatura alla personalità di Renato, alla sua modalità di recitazione, pieno di durezza e rigore, questo si ritrova nel personaggio del film, fermo e testardo nella sua metaforica cecità, nel suo essere intrappolato nel passato. Inoltre, paradossalmente, dover girare sotto pandemia ha dato un valore aggiunto, un corto circuito positivo. C’era una grande atmosfera con la troupe, la cui gran parte era mutuata dai primi film di Sorrentino e Martone, che il mio produttore conosce bene, e alcuni membri erano giovanissimi. Questa grande esperienza e questo incontro di generazioni ha portato a una condizione armoniosa e a una collaborazione unica nel raccontare una città fin troppo abusata al cinema in maniera diversa, secondo la prospettiva di generazioni differenti. Chiedevo consiglio a ogni singolo membro della troupe ogni giorno e paradossalmente il momento storico ha aiutato a conferire realismo a questa città deserta e spettrale. Abbiamo documentato una Napoli mia, malinconica, come una uggiosa giornata di inverno, e l’abbiamo ritrovata nella realtà”.
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