Rebecca (Margaret Qualley) – caschetto biondo geometrico, rigoroso tailleur di velluto scuro, camicia bianca che stringe in un fiocco alto al collo – è un’avvocatessa che incontra Hal Porterfiled (Christopher Abbott) per un colloquio professionale, il ruolo da ricoprire è quello di CEO di un impero del turismo. Questo è il copione.
Sì, perché Rebecca è una dominatrice professionista, che “non tocco i miei clienti, e loro non toccano me, perché non hanno bisogno di qualcosa di fisico”, infatti Hal stesso ha un bisogno psicologico, quello di assecondare un senso di inferiorità rispetto alla figura paterna, di cui è erede, di una milionaria società proprietaria di una catena alberghiera.
La soddisfazione, la manipolazione, la delusione, il ricatto, ma soprattutto la declinazione del concetto di “gioco” sono i fili della trama di Sanctuary di Zachary Wigon, film in Concorso Ufficiale alla Festa di Roma: il gioco è molteplice, lo è nel concetto del “play” attoriale – quando lei interpreta il copione scritto da lui, appunto – lo è quando è gioco erotico, quantomeno alluso, quando è gioco di ruolo e, ancora, gioco di potere. “L’idea centrale della sceneggiatura era che, a volte, riusciamo ad accedere a una versione più vera di noi stessi attraverso la fantasia e il gioco di ruolo: c’è una cosa che mi è sempre rimasta molto in mente, detta da David Bowie quando raccontava come fosse nato il personaggio di Ziggy Stardust, ovvero che fosse in grado di essere più se stesso, più David Bowie, quando interpretava Ziggy Sturdust, che non nella sua vita reale. Non è il mio ruolo dire quale sia il concetto definitivo del film, questo lo lascio al pubblico, ma e c’è sicuramente un grosso parallelismo tra una situazione in cui si scrive una sorta di sceneggiatura da gioco di ruolo, che chiama in causa la fantasia, e due persone che si chiudono in una stanza e recitano una parte, per me questo è il rapporto tra il recitare e il gioco di ruolo”, spiega il regista.
Sanctuary s’intitola così perché “un santuario è un luogo in cui ci si sente sicuri dalle pressioni esterne e poiché il film si svolge tutto in un unico luogo per me quello doveva essere il luogo sicuro”, questa l’intenzione prima del regista, che ha scelto proprio un’efficace unità di luogo per lo svolgimento, una stanza d’albergo che molto ricorda un appartamento, in cui anche la decisa scelta cromatica, dalle gamme di rosso a quelle dei blu e fino all’ottanio, concorre a profilare le psicologie dei personaggi, vere protagoniste del film: “C’è un’idea di base, ovvero che questo film si connette molto bene alla Scrubble Comedy, come La signora del venerdì, quindi alle vecchie commedie, oltre che confrontarsi col thriller psicologico, più ancora erotico-psicologico: se ci pensate, nelle commedie ‘alla Howard Hawks’ badiamo alla commedia appunto ma i personaggi si trattano malissimo, come nel film appena citato, in cui Cary Grant cerca di sabotare il matrimonio della sua partner, eppure noi la prendiamo a ridere, e in questo caso mi piaceva l’idea di unire i due generi portando lo spettatore su una sorta di montagna russa, dove cambiano costantemente le dinamiche tra i due personaggi, creando un appeal per il pubblico. Per l’ambiente, volevo fosse con poche finestre, per restituire il senso di claustrofobia; ancora, l’altra idea che avevo molto chiara era il layout della suite, necessario per far spostare i personaggi da una stanza all’altra, per passare nelle diverse zone, a prova di noia, così da portare lo spettatore in giro; un’altra cosa è stata la volontà di scegliere colori intensi, forti, perché il luogo doveva essere ad alta intensità emotiva, quasi tattile, e questo, per essere reso in maniera visiva, lo si può ottenere con cromie e una saturazione molto forti. Poi, soprattutto nel finale, la mia idea era di cercare di tirare tutti i fili della storia, la parte psicologica e le questioni materiali, quindi la fine non si basa su nient’altro che sul tirare tutti i fili del film”.
Nel film, nel gioco delle parti, trascorre poco tempo perché Rebecca esca dal (gioco di) ruolo e “tolga la maschera”; Hal le dimostra gratitudine: “il tuo lavoro è incredibile, prezioso per la mia vita”, le dice lui congedandola per sempre con un prezioso Audemars Piguet, ma la dominatrice non è disposta a “dire addio a quell’impero” e si mostra offesa di apprendere d’essere riflesso del valore di un orologio, seppur quel valore sia di qualche migliaio di dollari. Rebecca sa giocare – il concetto torna e ritorna – e lo fa soprattutto con le parole, sa come farne un uso strategico e pungente, come un vocabolo possa stuzzicare le corde della psiche e questo non smette mai di fare per tutto il film, puntando a far sentire Hal “non all’altezza, se non fosse per me”. Lui subisce, lui fronteggia: “tu non mi hai insegnato niente, sono stato io a scrivere le scene, tu le hai solo recitate”, le rinfaccia in un moto d’orgoglio, che scatena in lei il ricatto.
“Il concetto del giudizio morale, da parte mia, è rimasto abbastanza fuori dal mio progetto: quello che mi interessava era mostrare due persone che mettevano in atto dei desideri, che emerge fossero veri, e rivelassero così i lati psicologici dei due. Però – avendo fatto il critico cinematografico prima che il regista – ritengo interessantissimo che ciascuno possa fare delle connessioni e delle interpretazioni, è qualcosa di molto affascinante”, continua Wigon.
Nel gioco tra la dominatrix e lo slave, ecco un colpo di scena finale dal tocco edulcorato, che però – in un film che soffre per un eccesso di diluizione dei tempi e delle dinamiche, difetto che non fa crescere, né quindi esplodere, un montare della tensione, di cui il racconto avrebbe potuto godere – finisce per far sorridere di lieve tenerezza, senza purtroppo scatenare un trasporto empatico istintivo.
Sanctuary – certamente un film che dosa comunque i giusti ingredienti per chiamare in sala il grande pubblico – esce prossimamente al cinema distribuito da I Wonder Pictures.
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