Iniziamo dal problema di oggi che ci porta a quelli di sempre, o almeno di ieri. Il film Salvo di Antonio Piazza e Fabio Grassadonia, vincitore di due prestigiosi premi della Semaine de la Critique di Cannes, al momento attuale non ha distribuzione in Italia. Grazie al coproduttore francese Antoine de Clermont Tonnere uscirà in Francia e in altri paesi in cui è stato venduto. Al finanziamento del film non ha concorso la RAI che non ha acquistato i diritti d’antenna e tanto meno è entrata in quota coproduzione (attraverso Rai Cinema).
Fatto salvo il diritto di ognuno (distributori e reti televisive) di esercitare il proprio diritto di scelta, il caso è emblematico per riflettere sulla sorte delle opere prime e seconde italiane di cui però si fa un gran parlare e che sono quasi sempre finanziate dal Ministero dei Beni Culturali attraverso la Direzione Generale per il Cinema.
Istituto Luce-Cinecittà ha fra i compiti assegnatigli la valorizzazione dei nuovi talenti e la loro diffusione sia in Italia che all’estero. Quando un produttore ci propone un film e viene inserito nel nostro listino, quasi sempre viene presentato in una qualche sezione dei più importanti festival nazionali e internazionali. Non per automatismo, ma perché i film lo meritano e grazie al più che decennale lavoro di chi si occupa della promozione del cinema italiano, che ha risvegliato l’attenzione dei direttori dei principali festival e quadruplicato la presenza di titoli italiani nei festival.
Un lavoro che viene svolto per tutti i prodotti italiani e non solo per i film distribuiti da noi. Ma ovviamente questo non basta.
Spesso, anche grazie alla risonanza dovuta alla presenza nei festival, questi film escono nel circuito cinematografico distribuiti da Luce Cinecittà. Ottime critiche, pessimi risultati al botteghino. Per inciso Luce Cinecittà ha fin dall’inizio aperto le porte anche al film Salvo, ma i produttori (comprensibilmente) hanno voluto tentare con distribuzioni più radicate nel mercato. Ancor più lo vorrebbero ora dopo il risultato di Cannes.
Ma è assai difficile valorizzare e difendere sul mercato un titolo che disponga di un basso budget per la promozione e che incontra un sistema di sale fortemente indebolito dalla crisi.
I cinema italiani (e soprattutto quelli dedicati al prodotto di qualità) stentano ormai ad assumersi i rischi di programmare film dal risultato incerto e faticano addirittura a sostenere i costi economici della digitalizzazione che sono contemporaneamente inevitabili ma troppo pesanti.
Si arriva addirittura all’aberrazione che alcune sale per programmare questi film chiedono un Minimo garantito (una cifra che viene comunque pagata dal distributore o produttore per mantenerlo in sala qualche giorno anche se gli incassi sono insufficienti). Luce Cinecittà mette a bilancio circa 200mila euro a film per le copie e la pubblicità. Ma Luce Cinecittà è anche obbligata per legge al pareggio di bilancio.
Ecco perché per alcuni film non si riesce a mantenere questo livello minimo di investimento (salvo ridurre drasticamente il numero di film distribuiti). Questo contradditorio quadro porta alla conseguenza inevitabile che spesso questi film vengono etichettati dalla opinione pubblica sotto la espressione “bello ma non ha fatto una lira”.
Ma come potrebbero se, nati con le stampelle, sono chiamati addirittura a fare una corsa ad ostacoli per farsi vedere? Non si possono gettare nel mucchio e, dopo averli trattati come “prodotti della ricerca e della sperimentazione”, pretendere che vincano nella competizione delle leggi del mercato.
Tutti questi film sono finanziati dallo Stato. Il finanziamento riguarda sia la produzione che la distribuzione. Ma, vista l’irrisorietà delle somme finanziate, il produttore quasi sempre chiede di rinunciare al contributo per la distribuzione per poterlo investire nella produzione, sommando alle debolezze di cui sopra un minor investimento per sostenere l’uscita.
Esiste una soluzione possibile?
La più drastica sarebbe quella (come alcuni sostengono) di produrre solo quei film che i produttori sono in grado di realizzare rinunciando ai contributi statali e contando invece sull’alleanza con una forte distribuzione alleata che garantisca l’accesso al mercato.
Due osservazioni in merito a questa impostazione. La prima è che tendenzialmente conduce a una cinematografia legata alla commedia e basata sul binomio scrittore/regista-amico di una star. Nulla contro, ma non possono essere i soli.
La seconda è che (come dimostrano le storie di tutte le cinematografie) questo modello deperisce e muore se gli viene a mancare, come substrato creativo, il cinema di sperimentazione e ricerca.
Seconda soluzione: rinunciare al passaggio in sala per andare direttamente al consumo su Internet nelle varie forme possibili. Ma, non soltanto i ricavi sarebbero insufficienti. Nella realtà la sala cinematografica ha ancora, e manterrà nel tempo, un ruolo determinante nella formazione delle aspettative e delle attenzioni diffuse sul prodotto. Abbandonare i film al web può apparire moderno e democratico ma equivarrebbe a un disastro. Inoltre, stante l’attuale legislazione, si perderebbe il diritto al contributo ministeriale e ai vantaggi del tax credit.
Terza soluzione, a mio avviso la migliore: non concedere che la quota del contributo destinata alla distribuzione venga usata per la produzione. Un film che coscientemente rinuncia alla pur ridotta possibilità di arrivare al pubblico non merita di essere finanziato. Imporre attraverso strumenti quale ‘Schermi di qualità’ una garanzia di programmazione in sala di almeno due settimane, sostenendo effettivamente l’esercizio in questa nobile impresa. Imporre ai broadcast una quota di investimenti destinati alle opere prime e seconde. Ciò appare tanto più giustificato alla luce della funzione pubblicistica della RAI e delle concessioni effettuate dallo Stato nel caso delle tv commerciali. Ridurre con decisione le protezioni per il passaggio in Rete e sulla Pay Tv allo scopo di stimolare l’interesse di questi soggetti all’investimento.
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