Salvo Cuccia


Filmaker, performer, videoartista, abituée del Torino Film Festival, il 44enne palermitano Salvo Cuccia firma Detour De Seta, percorso a zig zag attraverso il cinema di Vittorio De Seta e, insieme, attraverso la storia d’Italia pre e post boom economico.
Il progetto, nato 2 anni fa, scritto insieme a Benni Atria e finanziato dalla Regione Sicilia, sembra avviato ad un promettente tour di festival internazionali. Forse a partire da Venezia 61.

Cominciamo dal titolo del film che hai cambiato in corso d’opera…
Il titolo originario era Il tempo di De Seta. Ma mi è sembrato troppo nostalgico. Detour De Seta racchiude invece il metodo usato nella ricerca sulla cinematografia del grande regista. Un percorso fatto di deviazioni continue, di tappe sui set di De Seta: dalle miniere siciliane alle montagne di Orgosolo.

Come sono cambiati quei luoghi?
Tantissimo. Ripercorrere il cinema di De Seta è anche un modo per raccontare la trasformazione da una società arcaica a quella contemporanea, il passaggio dai vecchi ai nuovi dimenticati: prima pastori, contadini e minatori, oggi immigrati clandestini. Di solito i documentari sugli autori sono opere cinéphiles, in Detour c’è soprattutto un racconto sull’Italia. La parabola narrativa rispetta quella della nostra società. Tuttavia, il sentimento prevalente non è la nostalgia. Piuttosto, si rispecchia quello che De Seta, insieme a Pasolini, chiama lo sviluppo senza progresso”, un taglio repentino che ha interrotto una storia di millenni.

Come è costruito il film?
E” costruito bilanciando le parole di De Seta, le interviste a diversi intellettuali tra cui Goffredo Fofi, Gianfranco Pannone e Michele Mancini, e le immagini dei personaggi che vivono i luoghi remoti filmati da De Seta. Mi preme restituire a queste persone il senso del tempo e della mutazione. Ho usato formati diversi: il 35mm per i paesaggi, il digitale per le interviste. Poi ci sono materiali di repertorio. Il film è anche un’opera radiofonica: il sonoro può essere fruito in modo autonomo dalle immagini. Le musiche, tutte originali, sono di Domenico Sciajno.

Nel tuo film Michele Macini parla di De Seta come un regista che ha sempre lavorato su margini e bordi, in bilico tra fiction e documentario e periferico rispetto al mercato. Sei d’accordo? Si. De Seta è una figura solitaria abituata a lavorare in modo artigianale, fuori dall’industria e dal mercato. La forza del suo cinema viene proprio dall’attitudine a filmare i margini della società. Un’intuizione non valorizzata dal giovane cinema italiano.

Che ruolo occupa Lettere dal Sahara”, ultimo film di De Seta, nel documentario?
Lettere dal Sahara è il fuoricampo del film. Ci sono rimandi frequenti ma non si vede quasi mai. Il racconto sul clandestino che sbarca in Italia è anche il fuoricampo del cinema italiano, la realtà che irrompe sullo schermo.

autore
19 Aprile 2004

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