È un mondo arcaico, fuori dal tempo, appena sfiorato dalla storia e dal progresso, quello di Sonetàula, il film di Salvatore Mereu che molto interesse ha suscitato a Berlino, a Panorama, e che venerdì 7 marzo arriva in sala con Lucky Red. Una lunga e tortuosa lavorazione, gli ultimi ritocchi a poche ore dal festival, mentre la moglie del regista dava alla luce la piccola Elena, nata proprio alla vigilia di questa sofferta anteprima. Il regista nuorese (è originario di Dorgali) si era già fatto notare con Ballo a tre passi, che vinse alla Settimana della critica di Venezia. Ora con l’opera seconda conferma lo sguardo personale, quasi etnografico, con un dichiarato debito verso due autori come Gianni Amelio e Vittorio De Seta. In due ore e mezza scandite da un passo lento ed ellittico, racconta l’epopea del bandito ragazzo Zuanne Malune – detto Sonetàula perché le sue ossa giovani fanno ancora rumore di legna: il padre mandato al confino per un crimine che non ha commesso, la dura vita quotidiana del servo pastore, insieme al nonno e allo zio che muore di malaria, l’amore infelice per la coetanea Maddalena. Sonetàula risponde a uno sgarro facendo strage di pecore e quando i carabinieri vengono a cercarlo decide di diventare clandestino, unendosi agli altri latitanti. Il film, tratto da un romanzo di Giuseppe Fiori, pubblicato da Einaudi, ne racconta la breve esistenza dai 12 ai 25 anni: il protagonista è l’esordiente Francesco Falchetto, un ragazzino cresciuto sotto gli occhi del regista nei dodici mesi che ci sono voluti, con due interruzioni, per portare a termine il progetto. Prodotto da Gianluca Arcopinto e Andrea Occhipinti, esce sottotitolato in italiano.
I sottotitoli saranno indispensabili anche per il pubblico sardo.
Sì, perché la lingua in cui è parlato, il logudorese, non è compresa neanche in tutta la Sardegna, dove si parla anche campidanese. Sarà doppiata in italiano, invece, la versione televisiva, realizzata per Rai Fiction, che andrà in onda in due puntate da 95′. Questa versione avrà diverse scene in più, per esempio l’omicidio di Anania Medas nel suo negozio di barbiere e la vendetta di Sonetàula. Sono tutte parti che nel film per il cinema ho voluto tagliare: volevo raccontare tutta la storia nella testa del protagonista.
Cosa l’ha attratta nel romanzo di Giuseppe Fiori?
Giuseppe Fiori è conosciuto soprattutto come biografo di Gramsci, Berlinguer e Lussu. In realtà vinse il Premio Deledda per questo romanzo, pubblicato in due versioni, la seconda, nel 2000, in forma più secca, spogliata di aspetti sociologici e di cronaca e concentrata sulla vicenda. È sicuramente un libro ispirato a molti fatti della cronaca del banditismo, che poi vengono trasformati in qualcosa di più generale. Tanto è vero che Orgadas non è un paese reale ma ne racchiude molti dell’interno della Sardegna.
Perché inserire tre attori professionisti come Lazar Ristovski, Giselda Volodi e la cilena Manuela Martelli in un tessuto di non professionisti?
Certo non per furbizia, perché non sono nomi di così grande richiamo. Il cast è stato molto complesso e spesso l’ho tenuto aperto fino al giorno prima delle riprese alla ricerca di facce antiche e ormai scomparse. Ho guardato a lungo le fotografie di Scianna e De Biasi per capire come dovevano essere questi uomini, che hanno vissuto la guerra, la malaria e la fame. Ma per quei tre ruoli non ho trovato non professionisti che mi convincessero. Per il ruolo del padre, in particolare, volevo una figura mitica, perché tutta la vicenda ruota proprio attorno questa mancata paternità: e Ristovski, attore di Kusturica e Paskalijevic, era nei miei pensieri sin dalla scrittura.
Il film ha una lavorazione quasi leggendaria.
In realtà è durata 28 settimane, con interruzioni, nel corso di un anno. Abbiamo cambiato quattro direttori della fotografia. Per un’opera seconda ho avuto molta fiducia dai produttori e 4 mln di € grazie alla coproduzione con Belgio e Francia, al contributo di Eurimages, a Rai Fiction, oltre che della Regione Sardegna, che ha una legge cinema all’avanguardia. Ho affrontato il film come se fosse un documentario, rinunciando a una troupe classica perché con i non attori è meglio avere poche persone intorno. In più abbiamo girato in luoghi inaccessibili.
La storia inizia nel ’38 e arriva al ’49: c’è ancora memoria di quella Sardegna arcaica nell’oggi?
La Sardegna resta un universo attraversato da grandi contraddizioni: le enormi differenze tra la costa e l’interno, tra l’industria telematica e la pastorizia nomade, anche se oggi i pastori sono rumeni e macedoni. Il senso di estraneità allo Stato e alla legge non è scomparso, soprattutto in alcune comunità dell’interno. Le faide sono ancora cronaca di questi giorni.
Uno degli interpreti, Giuseppe Cuccu, è stato tra i protagonisti di “Banditi a Orgosolo”.
E’ vero, e sperava di andare col film a Venezia, perché non c’era potuto andare nel ’61, quando Banditi a Orgosolo vinse come migliore opera prima. La scelta è un omaggio a De Seta che è l’autore che meglio ha saputo raccontare la Sardegna, meglio di un indigeno. Ho cercato di seguire il suo metodo, accorciare la distanza tra l’occhio che guarda e ciò che viene rappresentato.
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